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NON LEGGERE, STARESTI MALE. Vi diciamo dove è Dio, quando i bambini muoiono affogati sui barconi.

Se esiste il dolore, significa che Dio è ‘assente’. Dunque ci si crede, nella misura in cui l’assenza sia il contrario della presenza: si crede, comunque che esista. Allora no, non conviene: se esiste il dolore, Dio è ‘inesistente’. Meglio. E viene meno, quindi, il ‘colpevole’, Colui al quale attribuire la responsabilità, la figura contro la quale scagliarsi, quando la sofferenza incombe e schiaccia il cuore dell’uomo.





Lottano, così, tra loro, il credente deluso, ferito dal ‘silenzio di Dio’, dall’immagine sgretolata di un Dio incapace di impedire il male, e l’ateo che sembra non aspettare altro che il mondo si disfaccia di guerra, fame, morte per poter gridare, finalmente, che Dio non esiste, che le belle fiabe tinte di stelline, nuvolette, angeli paffuti e pecorelle siano, per l’appunto, fiabe.

Davanti alla tragedia umana, quella di portata sconvolgente, in cui si muore e basta, nonostante l’infinità di inutili interrogativi e dita puntate le une contro le altre, non c’è tempo per l’antropologia, né per la psicologia, né per la filosofia e nemmeno per la teologia.

C’è un’unica domanda a cui bisogna rispondere e subito: dov’è Dio? Il dolore è devastante. E sulle macerie della terra si accumulano orribilmente, le macerie dei cuori, intrise di lacrime che non possono nemmeno più irrigare, tale e tanta è l’aridità. Gli occhi delle madri, incapaci, ormai, di vedere perché colmi di pianto, cercano Dio. Le braccia disperate dei padri che non hanno più la forza di stringere, cercano Dio. Il mondo intero, scorre le notizie, segue gli aggiornamenti e cerca Dio. Tace la scienza e persino la saccenza, tacciono superbia, rancore, rabbia, dopo il primo grido. E tace anche Dio.





Ma Dio ama. E si esprime amando. Il Suo è un amore immenso che Gli lacera il cuore. Perché Dio è nel cuore di chi soffre. Dio è in chi soffre e in questo momento non ha nulla da dire. È nei corpicini martoriati, è nel cuore delle mamme e dei papà, è nel dolore stesso. Se la fede lo spiegasse e lo dimostrasse, sarebbe, essa stessa, scienza. Invece resta fede, ora più che mai. Resta forza dell’abbandono tra le braccia del Padre, e non ci sono parole, né ragionamenti, né conoscenza necessari e sufficienti per fermare l’eco assordante e disperata che sovrasta l’intero genere umano.

Di Dio si fa esperienza. Dio si incontra, Dio si contempla. C’è un unico segno che ha la forza di rispondere e solo nel caso in cui gli si conceda l’opportunità, perché, per amore, non può imporsi: la Croce. Dio conosce bene il dolore dell’uomo, perché è nel Figlio crocifisso. Il legno inanimato della Croce, riceve il Sangue che diviene linfa: e quel legno ha e dà vita, è e dà speranza. Il silenzio è lo stesso del Getsemani, il dolore è lo stesso della flagellazione, la morte è la stessa del Gòlgota. E le braccia che stringono Gesù esangue al cuore trafitto dalla spada, sono di Maria. In scena non c’è torto o ragione, né vincitori o vinti. C’è il nulla. Il silenzio, appunto. Forse ancora qualche goccia di pioggia. Però c’è la fede del Centurione, il più distante fisicamente, socialmente, politicamente. Dio è persino in quella distanza. Eppure il Gòlgota non termina con se stesso. Dopo poche ore c’è la vita, la Resurrezione, e la Gloria di Dio si fa visibile allo ‘spezzare il pane’

 

Qualsiasi saggio, per quanto perfettamente formulato, arricchito di conoscenza, approfondito di nozioni, che attinga alle più alte fonti non sarà mai adatto ad aprire gli occhi per vedere quello ‘spezzare il pane’ che dia dignità al dolore altrimenti inutile, criminale, inadeguato alla capacità di sopportazione dell’uomo.

Dio è in quel dolore e quel dolore è in Dio e sprigiona tenerezza infinita, compassione immensa, amore perfetto, ineffabile, eterno. Da esso si può fuggire, contro di esso si può imprecare e persino bestemmiare, nella bassa illusione di averne ragione. Oppure si può avere l’audacia di mettersi in gioco fino in fondo nell’incontro col Signore… È lì che si trova il coraggio di credere.

di Loredana Corrao

 

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