Santa Rita è una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico; ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Margherita Lotti, questo il suo nome al secolo, nasce intorno al 1381 a Roccaporena, piccolo villaggio umbro a 710 metri di quota (oggi frazione del Comune di Cascia).
I suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono; solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita della santa fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato. Come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta ad esempio che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita. In ciò c’è una similitudine con San Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione. Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di Santa Maria della Plebe a Cascia.
Dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante. Un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla. Anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare. Passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio. Man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta tramandarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi. Visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena. Qui la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori. Oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia. Dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di Sant’Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre San Agostino, San Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo. Era conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni. In quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie. Pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto. Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi. Chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile. Un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
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I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta. E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori. Poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia.
Fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite. Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito erano decisi ad eliminare anche il resto della famiglia Mancini.
Nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini; quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo. “Io te li dono. Fa’ di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre. A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di Santa Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di santa Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio. Santa Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito. Ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere. Ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama; la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di Santa Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro. Fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
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Secondo la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso. Si narra che una notte, Rita, come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al di sopra del villaggio di Roccaporena). Qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori, i quali la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero. Era l’anno 1407.
Quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni. Benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino. Ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità.
Praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì in un giorno nel 1432. Mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte. Producendole così una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione. La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per sostenere la causa di canonizzazione di San Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente. Ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie. Negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento.
E in questa fase finale della sua vita avvenne un altro prodigio. Essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente la quale, nel congedarsi, le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena. Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto. La parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile. Ma Rita insistè. Tornata a Roccaporena, la parente si recò nell’orticello e, in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata. Stupita, la colse e la portò da Rita a Cascia la quale, ringraziando, la consegnò alle meravigliate consorelle.Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’. Nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene spesso ritenuto) Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì. Sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
In qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio. Il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto e guarito per intercessione della santa.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito; appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII. Il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”.
Viene canonizzata il 24 maggio 1900 papa Leone XIII.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di santa Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi e Norcia costituiscono le culle della grande santità umbra.
(Fonte santiebeati.it – Autore: Antonio Borrelli)
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