Quest’anno saranno coinvolti anche i bambini. Il programma prevede attività ludico-educative studiate apposta per loro. Ora, in questo caso, i bambini presenti saranno stati condotti lì dai genitori, ma si parla di introdurre la “rieducazione gender” (mi permetta di esprimermi così) anche a scuola. Le attività ludiche all’interno del Gay Pride attestano quanto la cronaca registra ormai da tempo. Si tratta di una vera e propria opera di educazione, col pretesto di educare i ragazzi alla lotta contro il bullismo e l’omofobia. In realtà, i bambini vengono inseriti in un mondo che non esiste. Ci lamentiamo sempre della virtualità, che produce danni irreparabili sulla crescita dei ragazzi, e non ci rendiamo conto che c’è un mondo che non è autentico, non è vero, e che viene proposto in tutte le salse, con la speranza che i modelli educativi vengano omologati e che, tra qualche anno, non si ponga più il problema di una accettazione della coppie omosessuali e dei diritti che rivendicano. Tutto questo è grave. Si specula sull’innocenza e sul diritto che i bambini hanno di crescere in un mondo “vero”, autentico, fatto di complementarietà tra uomo e donna, di una famiglia naturale, del diritto che ciascuno ha di avere un padre e una madre e dei punti di riferimento. Non possiamo però negare che nella nostra società vi siano queste tensioni. Magari tacciamo sulla speculazione finanziaria, o ce ne accorgiamo tardi. Però, piaccia o no, in questo mondo si discute un giorno sì e l’altro pure dei «diritti omosessuali». Il problema c’è, insomma. Lo so bene, e infatti non si tratta di dissimulare alcunché: i problemi si affrontano con intelligenza, ricorrendo ad una tradizione che è umana, religiosa, culturale, e che ha sempre caratterizzato il nostro popolo, e con un dialogo serio tra le parti in causa. Certo è che non si possono risolvere imponendo modelli culturali, che finiscono per snaturare anche il concetto stesso di sessualità e la crescita ordinata di un bambino.
Alcuni lamentano una certa chiusura della Chiesa in tema. No, la Chiesa non ha alcuna chiusura. La Chiesa ha sempre distinto la tendenza omosessuale dal comportamento omosessuale. Non è affatto vera l’accusa di discriminazione da parte della Chiesa. Perché la Chiesa ha sempre distinto l’omosessualità dalla rivendicazione di diritti, che ledono la legge di natura e la famiglia, così com’è innanzi tutto alla luce della ragione. È evidente che la rivendicazione di questi diritti non può essere sostenuta col pregiudizio che ci sia una discriminazione.
In questo periodo si assiste ad un fermento, in merito, anche tra i cattolici. È chiaro che la Chiesa non potrà mai riconoscere le unioni omosessuali. C’è un fermento – è vero, in gran parte creato ad arte da alcuni media, ma fatto proprio anche da certi cattolici, che si definiscono “adulti”. C’è questa idea che il diritto della persona venga prima di ogni altra cosa. E spesso non ci si avvede che questo diritto coincide semplicemente con il piacere personale, con un’etica sganciata da qualsiasi dimostrazione ragionevole, oggettiva. In altri termini, si ripropone ciò che Joseph Ratzinger stimmatizzò un po’ di anni fa: la dittatura dell’Io e delle sue voglie.
Mi pare che anche il Papa sia stato tirato in ballo. Sì, ed è quello che mi amareggia di più. Ricordano tutti una famosa espressione di papa Francesco: «Chi sono io per giudicare?». Nessuno però ha mai voluto rileggerla nel contesto in cui venne pronunciata. Il Papa allora disse: «Se un omosessuale è sincero e ricerca Dio, chi sono io per giudicare?». La ricerca di Dio è il presupposto per una omosessualità vissuta compatibilmente con la fede. Se non c’è questa ricerca, il rispetto della persona si ferma quando la persona pretende di imporre ad altri la sua visione individuale della sessualità, della famiglia, e degli obblighi che ne derivano.
Qualche settimana fa, fece molto parlare il battesimo di un bimbo, figlio di una coppia omosessuale. Non ci sono solo gli adulti coinvolti. Inutile nascondersi che vengano coinvolti, anche indirettamente, i bambini, perché le coppie omosessuali ne rivendicano l’adozione, e lì dove ciò ormai avviene, si pone un problema di ordine pastorale per la Chiesa. Anche il recente Instrumentum laboris del prossimo sinodo dei Vescovi ha recepito queste istanze. Il bambino viene o concesso per adozione da un tribunale o risulta il “prodotto” – sì, prodotto in laboratorio – di una fecondazione. La gioia per il dono della vita, tuttavia, non solleva dall’incombenza di affrontare problemi etici molto seri. Dietro una fecondazione c’è quasi sempre un egoismo di fondo, che vuole soddisfare a tutti i costi un desiderio di genitorialità, già frustrata in partenza, perché quel bambino non avrà mai una madre biologica, non vivrà mai una complementarietà di uomo e donna, e avrà della sessualità una visione unilaterale.
Nella sua azione pastorale, ha mai dovuto rendere chiare le ragioni della Chiesa a persone omosessuali che, sinceramente, ricercano Dio? Conosco diversi omosessuali, miei penitenti, che accompagno spiritualmente. Hanno una esemplare vita di fede, e vogliono, alla luce di questa, vivere secondo la volontà di Dio. Anzi, ci tengo a precisare che moltissimi omosessuali che confesso, si dissociano da qualsiasi ostentazione, da qualsiasi rivendicazione di orgoglio, e da qualsiasi legislazione che possa, in qualche modo, equiparare l’eterosessualità e l’omosessualità anche a livello pubblico. Questo mi conforta, perché al di là della dimensione di fede, è l’attestazione che il buon senso e la ragione alla fine prevalgono sempre, e non creano nessuna discriminazione. di Antonio G. Pesce
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