Una notizia che si aggiunge alla lista degli orrori perpetrati dai miliziani del sedicente Stato islamico: 19 ragazze sono state chiuse in una gabbia di ferro e bruciate vive in piazza, nella città di Mosul in Iraq, roccaforte dell’Is dall’occupazione avvenuta nel giugno del 2014. Le giovani donne di religione yazida avevano rifiutato di essere schiave sessuali.
La loro barbara esecuzione è una strategia di guerra o altro? Roberta Gisotti lo ha chiesto a Martina Pignatti Morano, presidente dell’Associazione non governativa “Un ponte per…”, presente da ormai 25 anni in territorio iracheno per aiutare la popolazione:
D. – Mancano le parole per descrivere lo strazio delle donne finite sotto l’occupazione di questi uomini – possiamo dire – disumani… E’ una strategia di guerra o che altro?
R. – Queste 19 donne erano yazide, alcune delle 3.500 donne e bambini che sono ancora schiave dell’Is. Sono state bruciate vive e purtroppo ci si aspetta che in questi giorni il cosiddetto Stato islamico metta anche online il video per documentare questo atroce crimine, come hanno già fatto in passato con il pilota giordano. E questo perché per loro questa è un’azione di rappresaglia verso il governo iracheno, la comunità internazionale, il governo del Kurdistan iracheno e contro l’offensiva militare che, in questo momento, sta crescendo per la liberazione delle aree conquistate da Daesh. Quindi, in realtà, è un pretesto che queste donne non avessero voluto sposare i combattenti. Fa parte di una strategia chiara, all’interno della quale l’Is sta anche bruciando vive delle altre persone musulmane delle aree occupate, accusate di essere spie. Hanno scelto il primo giorno di Ramadan per farlo, dopo aver sequestrato anche, in tutta la Piana di Ninive, le antenne satellitari della gente per impedire alle persone di ascoltare i telegiornali e di capire quindi quello che sta succedendo: lasciare i civili nel buio così da poter organizzare la propria offensiva e la propria difesa militare.
D. – Le donne come soggetti deboli, quindi esposte ad ogni atrocità…
R. – Sì, come associazione “Un ponte per” crediamo che sia molto importane in questo momento – oltre a promuovere approcci non militari per la liberazione di queste aree e la negoziazione tra le comunità per riuscire a ricostruire un fronte politico anti-Daesh – avere un approccio di giustizia riparativa. Quindi, prima di pensare a punire il colpevole, pensare a riparare la violazione subita dalle vittime: tutte queste donne yazide, curde, musulmane colpite dall’Is stanno ricevendo in realtà poco aiuto, nei fatti, dalla comunità internazionale, per recuperare fisicamente e psicologicamente. C’è veramente bisogno di sostenere, in questo momento, come comunità internazionale, sia le ong che le istituzioni nel sostenere queste donne: questo è possibile! Non dobbiamo aspettare di liberare le aree da Daesh. In questo momento le vittime ci chiedono vicinanza e sostegno.
D. – Molto importante, quindi, la mobilitazione civile, a cui a volte si dà poco spazio e non si dà la giusta importanza rispetto alla risposta militare…
R. – Sì. Noi stiamo vedendo con un progetto che abbiamo portato avanti con l’Undp, con le Nazioni Unite, nella Piana di Ninive che c’è moltissima attenzione e disponibilità delle comunità sunnite, sciite, curde, turcomanne, yazide e cristiane a lavorare tutti insieme per immaginare dei percorsi di convivenza: sono questi che renderanno poi possibile la liberazione di quelle aree, la restituzione di quei territori ai cittadini e ai civili. Anche perché questi erano i problemi sottostanti e già precedenti, erano i conflitti interni già presistenti, grazie ai quali poi l’Is è entrato, facendo leva proprio sulle conflittualità tra le comunità locali. Finché non lavoriamo su quei processi politici e sociali, non ci sarà liberazione dall’Is, perché non c’è uno scenario di trasformazione del conflitto. Su questo noi lavoriamo e vediamo che non solo le associazioni, i movimenti di donne, ma anche i leader tribali, i leader religiosi hanno molta attenzione, capacità e disponibilità a lavorare sul peacebuilding, nonostante allo stesso tempo debbano gestirsi una crisi umanitaria, perché l’offensiva militare contro l’Is – per come viene gestita in questo momento – sta causando un ennesimo flusso di sfollati e non solo dalle aree di Falluja, dove purtroppo la gente è rimasta intrappolata, ma anche dalle aree della Piana di Ninive, a Makhmur, nel sud, dove adesso sta crescendo l’offensiva e sono nuove centinaia di migliaia di persone disperate che non sanno quando potranno tornare nelle loro case e tra di loro sempre alcune centinaia di migliaia di cristiani, che ancora si chiedono quando potranno resistere a vivere in Iraq.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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