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P. Fares: per Papa Francesco il Vescovo è uomo di comunione che veglia sul popolo

P. Fares: per Papa Francesco il Vescovo è uomo di comunione che veglia sul popolo“Francesco, appena eletto, si é collocato nella grande tradizione della Chiesa e del Vaticano II”. É uno dei passaggi dell’articolo di apertura dell’ultimo numero di Civiltà Cattolica dal titolo “La figura del vescovo in Papa Francesco” a firma del teologo gesuita argentino Diego Fares. Alessandro Gisotti ha chiesto a padre Diego Fares, legato a Jorge Mario Bergoglio da quarant’anni, di soffermarsi sul tema del suo articolo:

R. – Appena eletto Papa Francesco fa due movimenti – parlo della sua corporalità, senza metafore: il primo, quello di abbassarsi. Invece di mettersi molti paramenti lui ha chinato la testa per ricevere la benedizione del popolo fedele che stava nella piazza e in tutto il mondo, vedendolo. Questo è Vaticano II: “Lumen Gentium 8”. Cristo che si spoglia, che viene a cercare I poveri; la Chiesa che “quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8). L’altro gesto è quello che fa ogni volta che sale sulla papamobile e gira la piazza in tutta la sua ampiezza, o quando sceglie i luoghi di frontiera come meta delle sue visite. I suoi movimenti ci fanno sperimentare un’immagine di come un vescovo possa essere in mezzo al suo popolo. Questo è la “Lumen Gentium 12”: Vescovo e popolo fanno un cammino insieme, in cui “la totalità dei fedeli che hanno l’unzione ricevuta dal Santo Spirito (cfr 1 Gv 2,20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua particolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il Popolo, quando ‘dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici’ esprime il suo consenso universale in materia di fede e di morale” (LG 12). Ma soprattutto è importantissimo capire che per il Concilio e per Gesù, pastorale non si oppone a dottrinale. La pastorale non è un’applicazione d’una “dottrina” gestita per i dottori della legge, che hanno le mani pure perché non toccano mai la gente, ma agiscono soltanto con le idee chiare e distinte di Cartesio, mentre i pastori se le sporcano. La Rivelazione che ci ha consegnato il Signore, si ordina alla salvezza del suo popolo non a una conoscenza astratta della Trinità ma a una conoscenza amorosa ed operante. La dottrina è pastorale, è riflettuta nell’azione di comunicare la grazia mediante i Sacramenti e le opere di misericordia. E la fede che opera per la carità.

D. – Spesso Francesco ripete ai vescovi di essere “pastori, non principi” e ha destato un certo scalpore la definizione di “vescovi-pilota”, utilizzata da Francesco nel recente discorso alla Cei. Alcuni leggono questo come un “rimprovero” del Papa ai suoi confratelli. Qual è la sua opinione conoscendo Bergoglio da prima ancora che lui stesso fosse nominato vescovo?

R. – Questo di essere pastori, di avere l’odore delle pecore e non essere principi né piloti (gestori), viene da quarant’anni, da quando eravamo novizi e studenti e lui era il nostro provinciale e dopo rettore. Mi ricordo di un compagno che, passeggiando per l’orto del nostro Collegio Massimo, dove avevamo maiali, mucche e pecore, ha visto che Bergoglio, il nostro rettore, stava aiutando una pecora a partorire. Sorpreso il mio compagno, gli ha offerto il suo aiuto. La pecora aveva rifiutato un agnellino dei tre che aveva partorito. Bergoglio ha riflettuto un attimo e improvvisamente ha preso quell’agnellino e glielo ha consegnato dicendogli: “Custodiscilo!”. “E come si fa”, ha detto questo? “Vai all’infermeria e riscalda un po’ di latte e daglielo con il biberon”. Per cinque mesi, questo studente ha avuto l’agnello in camera sua, che propriamente puzzava di odore di pecora… L’agnello lo seguiva per tutta la casa, fino in chiesa e nelle aule. Bergoglio gli ha detto: “Ti ho provato. Tu hai imparato questo: se tu la custodisci, la pecora ti segue. Fa’ cosi”. Dire ai vescovi di essere pastori, non principi né piloti è un rimprovero di quelli cha danno vita. Ho sentito dire: “Con tutti ha tanta misericordia e ai vescovi li calpesta”. Ma le opere di misericordia spirituale dicono: insegnare a quello che non sa, dare buoni consigli a quello che ne ha bisogno e correggere quello che sbaglia. Sono “rimproveri misericordiosi”. Una cosa è perdonare ai peccatori (pecore e pastori) i peccati e un’altra cosa è essere misericordioso con la missione del Pastore. La missione va corretta: Pietro è stato corretto “impietosamente” da Gesù: “Vai dietro di me, Satana questi pensieri non sono da Dio”. E questi rimproveri di Gesù l’hanno fatto un Pastore misericordioso con le pecore. Le opere di misericordia spirituale sono propriamente diversi gradi di rimprovero amoroso: insegnare e dire “si fa così e non così“. Consigliare vuol dire: ti consiglio di fare questo e non quello. Correggere vuol dire: “Senti, tu sbagli!” Meno male che il Papa ci dice di non essere pilota. Come fai a pilotare una Chiesa che è barcone di rifugiati, ospedale da campo… e società ipertecnologica… Invece, essere  pastori significa che uno conta con l’amore e l’aiuto delle pecore per trovare l’acqua: il senso del popolo fedele che aiuta il pastore ad ascoltare lo Spirito…

D. – Una delle categorie molto presenti in Francesco, quando parla dei vescovi, è il “vegliare”, cioè il pastore deve “vegliare sul suo popolo”. Cosa vuol dire esattamente per il Papa?

R. – Un’immagine molto bella e forte dell’uomo che veglia è quella di San Giuseppe. È lui che veglia fino in sogno sul Bambino e sua Madre. Da questo vegliare profondo di Giuseppe nasce quel silenzioso sguardo d’insieme capace di curare il suo piccolo gregge con poveri mezzi. E germoglia anche lo sguardo vigile e astuto che riuscì a evitare tutti i pericoli che minacciavano il Bambino. Il San Giuseppe dormiente, al quale Papa Francesco affida i suoi “foglietti” affinché “li sogni”, è l’immagine del vescovo, del pastore che veglia sul suo popolo. C’è un carisma specifico espresso nel nome stesso di ‘vescovo’ — in greco “episkopos” — sul quale l’allora cardinale Bergoglio rifletteva nel Sinodo del 2001, dedicato a “Il vescovo: servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo”. Quel carisma, che è anche una missione propria del vescovo consiste nel “vegliare”. Vale la pena di riportare il testo per intero: “Il vescovo è colui che veglia; cura la speranza vegliando per il suo popolo (1 Pt 5,2). Un atteggiamento spirituale è quello che pone l’accento sul sorvegliare il gregge con uno sguardo d’insieme”; è il vescovo che cura tutto ciò che mantiene la coesione del gregge. Un altro atteggiamento spirituale pone l’accento sul vigilare stando attenti ai pericoli. Entrambi gli atteggiamenti hanno a che fare con l’essenza della missione episcopale e acquisiscono tutta la loro forza dall’atteggiamento che considero più essenziale, e che consiste nel vegliare. “Una delle immagini più forti di questo atteggiamento è quella dell’Esodo, in cui ci viene detto che Yahvé vegliò sul suo popolo nella notte di Pasqua, chiamata per questo “notte di veglia” (Es 12,42). Quel che desidero sottolineare è questa peculiare profondità del vegliare rispetto a un sorvegliare in modo più generale o rispetto a una vigilanza più puntuale. Sorvegliare fa riferimento più alla cura della dottrina e dei costumi, mentre vegliare allude piuttosto al curare che vi sia sale e luce nei cuori. Vigilare parla dello stare all’erta dinanzi al pericolo imminente, vegliare invece parla di sostenere con pazienza i processi attraverso i quali il Signore porta avanti la salvezza del suo popolo. Per vigilare è sufficiente essere svegli, astuti, rapidi. Per vegliare occorre avere in più la mansuetudine, la pazienza e la costanza della carità comprovata. Sorvegliare e vigilare ci parlano di un certo controllo necessario. Invece, vegliare ci parla di speranza, la speranza del Padre misericordioso che veglia sul processo dei cuori dei suoi figli. Il vegliare manifesta e consolida la “parresia” del vescovo, che mostra la Speranza “senza snaturare la Croce di Cristo”.

D. – Lei su “Civiltà Cattolica” scrive che il modello a cui guarda Bergoglio è il vescovo come “uomo di comunione”. Una sua riflessione al riguardo…

R. – È stato questo il nucleo dei discorsi ai vescovi italiani, l’anno scorso e quest’anno. Nel 2014, Papa Francesco ha compiuto un gesto significativo: ha regalato ai vescovi il testo del discorso con cui Paolo VI richiedeva, alla stessa Conferenza episcopale italiana, 50 anni fa, il 14 aprile 1964, “un forte e rinnovato spirito di unità” che provochi una “animazione unitaria nello spirito e nelle opere”. Questa unione è la chiave affinché il mondo creda, affinché si possa essere “Pastori di una Chiesa […] anticipo e promessa del Regno”, che esce verso il mondo con “l’eloquenza dei gesti” di “verità e misericordia”. E come il Pontefice ha detto ai vescovi italiani il 18 maggio scorso, essere uomini di comunione richiede una speciale “sensibilità ecclesiale”. L’unione è opera dello Spirito che agisce grazie a vescovi pastori e non a “vescovi-pilota”. Essi rinforzano “l’indispensabile ruolo di laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono”. La loro sensibilità ecclesiale “si rivela concretamente nella collegialità e nella comunione tra i Vescovi e i loro Sacerdoti; nella comunione tra i Vescovi stessi; tra le Diocesi ricche – materialmente e vocazionalmente – e quelle in difficoltà, tra le periferie e il centro, tra le Conferenze episcopali e i Vescovi con il Successore di Pietro”.

A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana

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