Sancta Sedes

Pacem in terris: un profetico cammino di pace indicato da Giovanni XXIII. Inascoltato dai potenti

PIU’ ATTUALE CHE MAI – La Pacem in Terris è l’ultima enciclica pubblicata da papa Giovanni XXIII l’11 aprile 1963, quando il Pontefice era già gravemente segnato dai sintomi della malattia – un cancro allo stomaco – che l’avrebbe portato meno di due mesi dopo alla morte. Il Pontefice si rivolge a «tutti gli uomini di buona volontà», credenti e non credenti, perché la Chiesa deve guardare ad un mondo senza confini e senza “blocchi”, e non appartiene né all’Occidente né all’Oriente. «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato». È una delle encicliche più famose e conosciute di papa Giovanni XXIII. Nella redazione dell’enciclica il Papa si avvalse dell’aiuto del professore e poi rettore della Pontificia Università Lateranense Pietro Pavan. Nella situazione del mondo contemporaneo fu ritenuta da tutti, anche dai non cristiani, come l’espressione migliore delle vie per alimentare le speranze di pace e di solidarietà di tutto il genere umano. Fu messa negli archivi delle Nazioni Unite a New York. Il mondo è diviso in due blocchi. Si combatte in Oriente, in Vietnam ma non solo. Conflitti e tensioni anche in Africa e in America latina. Su tutto e su tutti l’incubo nucleare. La Chiesa deve guardare ad un mondo senza confini, tanto meno diviso da muri o cortine, e non appartiene né all’Occidente né all’Oriente. «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato». Bisogna ricercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide”.

La Pacem in terris individua quattro punti cardine per orientare l’umanità sul cammino della pace: 1-. la centralità della persona inviolabile nei suoi diritti, ma titolare anche di doveri;   2-. il bene comune da perseguire e realizzare ovunque, sulla terra; 3-. il fondamento morale della politica; 4-. la forza della ragione e il faro illuminante della fede. Poi, certo, anche il disarmo e relazioni tra i popoli basate sul dialogo e sul negoziato, non su rapporti di forza. La Pacem in terris è una delle encicliche più famose e conosciute. Suscita una molteplicità di reazioni positive, anche fuori della Chiesa cattolica.  A Londra, numerosi deputati anglicani presentano una mozione di apprezzamento per l’opera di papa Giovanni. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, U Thant, saluta la Pacem in terris con una dichiarazione piena di entusiasmo: due anni dopo, porta l’enciclica all’Onu, promuovendone lo studio con un ciclo di conferenze a livello internazionale. L’agenzia di stampa sovietica Tass pubblica una sintesi dell’enciclica commentando soprattutto i passi dedicati al disarmo. Il presidente americano John Kennedy si dichiara fiero del documento e «pronto a trarne lezione». Il Washington Post scrive:  «Giovanni XXIII ha raccolto il voto dei popoli, cosicché la Pacem in terris non è solo la voce di un anziano prete, né quella di un’antica chiesa, ma la voce della coscienza del mondo». L’enciclica, ha nel tempo offerto la struttura portante che ha consentito un impegno diretto della Chiesa nelle questioni globali per gli anni a venire. Questa partecipazione è stata fondamentale per il dispiegarsi di sviluppi quali il movimento per i diritti umani, il concetto di comunità internazionale, il principio della responsabilità di proteggere e l’idea di una governance globale per affrontare problemi globali. L’«utopia» della Pacem in terris è ancora in cammino, con la sua aspirazione alta che dev’essere ulteriormente realizzata.

I concetti della Pacem in Terris passarono poi nel Concilio ispirandone diversi testi, dalla Dignitatis humanae, alla Nostra Aetate, alla Gaudium et Spes, al decreto sull’ecumenismo, a quello sulle missioni. L’enciclica, conteneva in se stessa una grande potenzialità di cambiamento, che andava ben oltre il contenuto specifico del suo messaggio. Essa svelava un aspetto essenziale del magistero ecclesiale, cioè la sua emendabilità, la sua progressione nel tempo, la sua capacità di corrispondere alle nuove necessità storiche, leggendo “i segni del tempo”. E ciò a partire proprio dal magistero petrino. In tal modo Giovanni XXIII dava una dimostrazione pratica di che cosa volesse dire che la sostanza della medesima dottrina dovesse essere esposta “nei modi che la nostra età esige”. Era questo il compito che papa Giovanni aveva affidato al Concilio; anzi nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962  “Gaudet Mater Ecclesia”, aveva scritto che proprio questo, cioè una riproposizione della fede di sempre “attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno” era il “punctum saliens”, la stessa ragione di essere del Concilio. Ed è in questo senso che il Concilio doveva essere un Concilio pastorale; ma per essere pastorale doveva essere dottrinale, perché riproporre l’annuncio evangelico nelle forme che i nostri tempi richiedono, “ea ratione quam tempora postulant nostra”, come seccamente era tradotto in latino, significava non certo adattare gli stili letterari, ma comprendere meglio il Vangelo a partire dall’umanità a cui oggi esso è rivolto, perché questo vuol dire leggere i segni dei tempi. La dottrina pertanto non solo doveva essere diversamente “rivestita”, ma doveva essere investigata e reindagata (“pervestigetur”, diceva il testo latino del discorso giovanneo) e le verità in essa contenute dovevano essere enunciate in modo che gli uomini del nostro tempo potessero intenderle ed accoglierle. Il fine della Chiesa è infatti tutto intero un fine pastorale. La pastorale non è una tecnica di comunicazione o di linguaggio ma, come dirà poi papa Francesco, è la maternità stessa della Chiesa. Il rapporto con gli uomini, con le donne di oggi, il sentire l’odore del gregge, questo doveva essere il Concilio: parlare al gregge, presentandogli la fede di sempre nei modi che la nostra età esige, nei modi che il gregge di oggi potesse raccogliere. Questo è esattamente ciò che, esemplarmente, aprendo la strada, ha fatto la “Pacem in terris”: dire che la libertà religiosa e la libertà di coscienza non erano “un delirio” ma la dignità stessa impressa nell’uomo da Dio, non era il cambiamento di un genere letterario, era una esplosiva novità dell’annuncio. E che questa novità venisse dal papa, voleva dire che il papato stesso si rimetteva in gioco. Ma, e questo è importante, si rimetteva in gioco non perché inventasse una nuova dottrina, ma perché finalmente tornava all’annuncio autentico derivante dal Vangelo: la libertà non se l’era inventata l’illuminismo, era la dignità stessa di Dio che Dio aveva impresso come sua immagine nella natura dell’uomo. Per questo papa Giovanni potrà dire sul letto di morte, replicando alle critiche mosse all’enciclica: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. a cura di Giovanni Profeta

 

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