Nella capitale del Sud Sudan l’impegno del francescano Federico Gandolfo accanto ai piccoli dimenticati «Molti sono stati abbandonati. Sniffano colla. Ma in ognuno c’è Gesù
Padre Federico Gandolfo mi accoglie in maglietta e bermuda all’ingresso degli uffici della parrocchia della Santissima Trinità nel quartiere Nyakuron della capitale sud-sudanese Giuba. La trentina appena passata, è un frate francescano minore romagnolo, da quattro anni da queste parti. Nell’ampio piazzale della parrocchia le attività fervono. «Tra le tante attività della parrocchia– dice – ce n’è una a cui tengo particolarmente. Sin dal mio arrivo, tra gli ultimi degli ultimi, non potevo non considerare come soggetti da privilegiare i bambini di strada di Giuba».
Vengono stimati a circa 3mila dalle autorità governative, e non sono molto diversi da quelli che purtroppo esistono in altre grandi città del Sud del mondo, dal Cairo a Karachi, da Nairobi a Rio de Janeiro.
Dormono davanti ai negozi per controllarli. Fanno piccoli servizi. Sopravvivono. «Lo so – confessa padre Federico –, ce ne sono ovunque di questi bambini, e non è possibile risolvere il problema nel suo complesso. Per alcuni di loro riusciamo a trovare il giusto ricongiungimento familiare, ma il più delle volte si tratta di orfani della guerra o della miseria.
Spesso sono vittime di una terribile pratica tradizionale da queste parti: Quando una donna si risposa, il nuovo marito non sia obbligato a prendere con sé i figli di primo letto della donna, e quindi spesso vengono semplicemente abbandonati. La nostra è quindi una goccia d’acqua nel mare. Ma questi ragazzi mi tengono sveglio la notte. E’ un’esperienza di fede quella che viviamo, perché nella fede ogni goccia d’acqua è considerata un tesoro, anche se la questione sociale persiste. Quando in Europa mi chiedono dove vada e cosa faccia, io rispondo: “ Vado dai poveri della strada”. Allora mi fanno: “E li togli dalla strada?”. “No”. “E perché lo fai?”. “Perché in ognuno c’è Gesù”».
È proprio una questione di fede. Aveva cominciato con una signora cattolica che aveva chiesto aiuto in un’azione a favore dei bambini di strada. Si era offerto lui, l’unico della parrocchia. Aveva alle spalle 4 anni di lavoro sulle ambulanze a Bolzano, quindi il sangue e la strada non lo spaventavano. «Un giorno uno di questi ragazzi è morto di setticemia, e poco dopo altri due sono stati uccisi dalle milizie paramilitari.
Abbiamo deciso di accelerare, di fare qualcosa di più, ed è stata quindi aperta in poco tempo la “Casa santa Chiara”, un orfanotrofio per una ventina di questi bambini e ragazzi, che vengono poi inseriti nella società grazie a delle adozioni locali. Abbiamo anche scolarizzato i ragazzi, insomma, qualcosa di buono è stato fatto». Poi l’incidente. «Alcuni mesi fa un ragazzino di strada è morto. Quella mattina, mentre era in agonia, mi avevano chiamato di continuo, ma ero irraggiungibile in quel momento. Quando il mio telefonino ha ricominciato a funzionare, mi hanno detto che era appena morto e che per le due ore di agonia non aveva mai cessato di invocare Abuna Kawaja,
cioè il frate bianco, cioè io».È allora che padre Federico ha deciso di ingranare una marcia superiore. Il francescano ha così riunito una ventina di ragazzi della sua parrocchia – «i più attivi e sensibili, ragazzi che pur non avendo nessun confort (quasi sempre a casa non hanno elettricità e acqua corrente), almeno hanno una casa e una famiglia nella quale vivono» –, ha fatto stampare delle magliette con una scritta sulle spalle Peace and Good People (Pace e buona gente), parafrasando il motto francescano, e una volta alla settimana si muovono alla ricerca di questi bambini di strada. Ha pure ottenuto l’autorizzazione da parte del ministro competente. In realtà sono bambini ma anche adolescenti, perché vanno sostanzialmente dai 7 ai 17 anni. Ne vedono un centinaio a ogni uscita. «Portiamo loro del cibo – spiega –, un po’ di compagnia, soprattutto medicine e curiamo le loro ferite ».
Molti di loro in effetti si trascinano piaghe purulente, che spesso riescono a sopportare solamente sniffando colla da mattina a sera, visto che l’effetto primo di questa droga dei poveri è abbassare la soglia del dolore. «Altrimenti non so come resisterebbero, con piaghe scarnificate attraverso cui si vede l’osso», precisa padre Federico.
«I ragazzi della parrocchia – continua -, abituati alla vita comunitaria di sport, feste e liturgie, non avevano mai pensato di mettersi a fare qualcosa per gli altri. Oggi per esempio comprano un pacchetto di biscotti e lo offrono ai bambini: è nulla, ma almeno si rendono conto che c’è chi sta peggio di loro. Al ritorno dalla prima girata, nel pullmino c’era un silenzio di tomba, nessuno osava parlare, tanto era stato lo shock provato dai ragazzi.
Ora questi ragazzi trovano incarnato nei bimbi di strada quel Gesù che dicono di amare, sotto il volto più francescano dell’emarginato, del povero, del piccolo, del malato, dello sporco. Non tutti hanno resistito all’impatto con tali sofferenze, ma il grosso del gruppo tiene, e anzi si sente più motivato di prima. Così, quando in pullmino recitiamo la preghiera di san Francesco per prepararci agli incontri per strada, c’è una vera comunione tra di noi. Poi si lavora».
Di Michele Zanzucchi per Avvenire.it
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