La storia di padre Justin, che ha accolto gli “ex nemici” (musulmani) nella sua parrocchia in Centrafrica, pronto a morire pur di salvarli dalla vendetta delle milizie cristiane e animiste (antibalaka)
«Quando in Centrafrica cristiani e gli animisti (antibalaka) hanno rovesciato la situazione, prendendo il controllo di gran parte del Paese, avevano l’obiettivo di farla finita con i musulmani, per tutte le violenze che avevano subito in passato dai seleka, i ribelli musulmani. Quelli che ci sono riusciti, sono scappati. Altri musulmani sono venuti a rifugiarsi da me. Io ho aperto le porte della mia parrocchia e li ho accolti. Ho subito informato dell’accaduto il vescovo, che mi ha dato il suo appoggio. Quando i ribelli cristiani e animisti hanno saputo che stavo proteggendo i musulmani, sono venuti per ucciderli. Mi hanno chiesto più volte di farli uscire, ma io ho rifiutato, cercando di avviare una trattativa. Allora hanno deciso di dar fuoco alla chiesa per ucciderci tutti».
Siamo nella Repubblica Centrafricana, a meno di 200 chilometri di distanza dal confine col Camerun. In un Paese ormai da anni teatro di una sanguinosa guerra civile, negli ultimi tempi la maggioranza cristiana e gli animisti hanno ripreso il controllo del Paese e cercano di vendicarsi delle violenze subite. Senza fermarsi davanti a niente e a nessuno. Meno che meno davanti a padre Justin, giovane sacerdote cattolico della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, a Carnot. La stessa città in cui, durante il governo dei seleka, il parroco aveva invece sostenuto e difeso i cristiani oppressi dai ribelli musulmani.
Padre Justin, perché ha accolto i rifugiati musulmani, a rischio della sua stessa vita?
«Sono cristiano e sacerdote: ecco perché. Essere sacerdote per me significa seguire Cristo e come Cristo essere pronto a tutto per amore, fino a dare la vita per gli altri. Io provo a vivere il Vangelo secondo la mia fede, mettendo in pratica i comandamenti: amare Dio, amare il prossimo, amare anche il nemico. Per questo ho accolto i musulmani: nel nome della mia fede. Quando in passato loro erano al potere, come tanti anche io ho sofferto e ho perso tutto. In quel momento, però, Dio mi chiedeva di amare i miei nemici e l’ho potuto fare anche grazie alla luce del carisma dell’unità di Chiara Lubich, un personaggio fondamentale nella storia della mia vocazione».
Quando i miliziani antibalaka sono arrivati cosa è successo?
«Mi hanno considerato un traditore, un complice, perché proteggevo i musulmani, che ci avevano fatto del male. Quando mi sono rifiutato di consegnarli, si sono procurati 40 litri di benzina e ci hanno dato un altro appuntamento e un ultimatum: se non avessi consegnato i musulmani, avrebbero dato fuoco alla chiesa per finirci tutti».
Chi c’era con lei, oltre ai rifugiati?
«All’inizio ero solo, perché i miei confratelli non c’erano. Quando hanno saputo cosa stava accadendo, mi hanno raggiunto per portarmi via. Quello è stato un momento molto difficile per me, perché partire significava abbandonare circa duemila persone nelle mani dei ribelli che volevano ucciderli. Restare voleva dire, invece, accettare di essere massacrato insieme ai musulmani. In quel momento mi è venuta in mente una domanda: cosa avrebbe fatto Chiara Lubich al mio posto? Cosa avrebbero fatto gli altri responsabili dei Focolari con cui faccio da anni un cammino di approfondimento della spiritualità di comunione? Ho pensato che loro avrebbero dato la vita per quelle persone rifugiate in chiesa e lì ho capito che Dio mi chiedeva di dare la cosa più importante che avevo: la mia vita. Così, nonostante il fiume di lacrime che mi scendevano dagli occhi, ho deciso di rimanere e ho chiesto ai miei confratelli di partire. Prima di andar via, però, gli ho chiesto di darmi il tempo di scrivere in fretta il mio testamento…».
Poi, cosa è accaduto?
«Mentre lo scrivevo, uno dei miei confratelli mi ha detto: “Non posso lasciarti, io rimango con te”. Dopo di lui, uno dopo l’altro, tutti e tre hanno deciso di rimanere. Nell’attesa dei ribelli ci siamo guardati con le lacrime agli occhi, pregando ciascuno nel suo intimo. Io avevo fatto tutto il possibile: avevo avvertito le autorità, l’esercito, ma non era successo nulla. Poi, all’improvviso, il mio telefonino ha squillato: era il capo dell’esercito dell’Unione africana, che era in Centrafrica per la sicurezza del Paese. Sapeva cosa stava accadendo e mi ha avvertito che nei pressi della nostra città sarebbero passati i militari diretti alla frontiera. Sono andato loro incontro per chiedere aiuto e insieme a loro siamo riusciti a tornare in parrocchia 17 minuti prima dell’arrivo dei ribelli».
C’è stata una battaglia?
«Sì, tra i ribelli e l’esercito. Ma i militari che ci proteggevano erano più forti e così è tornata la calma. Poi, piano piano, siamo riusciti a far andare una parte dei rifugiati in Camerun: ora in parrocchia ne restano ancora 800-900, ma ci sono i militari con loro».
Cosa vorrebbe dire ai cristiani che volevano ucciderla?
«La nostra fede ci chiede di perdonare e di amare sempre, anche i nemici. “Non c’è pace senza perdono e non c’è perdono senza giustizia”; diceva san Giovanni Paolo II. Quindi, se vogliamo la pace sulla terra e in tutto il mondo dobbiamo perdonare e favorire la riconciliazione. Siamo tutti figli di Dio chiamati a vivere insieme, in qualsiasi posto. Deve esserci il perdono, con la riconciliazione. Poi verrà anche la giustizia. Direi questo anche a quanti vivono negli altri Paesi dove ci sono le guerre: in Terra Santa, in Iraq, in Siria… E ai potenti che per i loro interessi egoistici stanno dietro a questi conflitti e li fanno passare per guerre di religione, direi di avere maggiore rispetto per le persone e per la vita. A tutti gli operatori di pace direi di non perdere mail la speranza e di continuare a lavorare per conquistare la pace».
Fonte: Città Nuova.it