Fosse stato per lui, quest’intervista non avrebbe avuto luogo. Se c’è un tratto, infatti, che contraddistingue padre Piero Parolari, missionario del Pime di 65 anni, è la discrezione e l’umiltà. Un anno fa, il 18 novembre 2015, l’attentato in Bangladesh gli ha dato una notorietà internazionale non voluta e che, anzi, ancora gli pesa.
Se oggi padre Piero ha accettato di raccontarsi, è per la natura particolare di Credere (che mette al centro la fede) e per l’amicizia che ci lega da tempo: nell’ottobre 2015 ci eravamo incontrati proprio a Dinajpur, nel Nord del Paese. Ora come ora, al missionario lecchese non interessano più di tanto gli sviluppi delle indagini e ancor meno le analisi politiche: il suo pensiero va al popolo del Bangladesh e, in particolare, ai “suoi” malati.
Padre Piero, dopo l’attentato ti consideri un miracolato. Perché?
«Mi è stata letteralmente ridonata la vita. Miracolosamente, il proiettile che mi ha colpito è entrato e uscito dal collo senza ledere nessun organo vitale. Una volta dimesso dall’ospedale sono tornato a guardare con stupore il cielo, a gustare il calore del sole, a gioire per il sorriso dei bambini… È stato come un nuovo inizio. Dopo l’incidente è cresciuta in me la consapevolezza di essere ancora di più gratuitamente amato da Dio. Tutto mi è stato donato: la vita, la fede, una famiglia molto unita, l’essere medico e missionario».
Torniamo a quel 18 novembre.
«Non ricordo cosa mi sia successo quel giorno. Ricordo, però, molto bene il dopo: le attenzioni ricevute in ospedale sia in Bangladesh che all’ospedale Bambin Gesù a Roma e poi le tante persone che si sono prese cura di me. Verso di loro ho provato tanta gratitudine e una riconoscenza immensa per Dio. Anche i tanti ammalati poveri che ho incontrato in Bangladesh sono stati per me un dono».
In che senso?
«Come missionario del Pime, come medico e prete esercito un ministero di misericordia e compassione. Insieme con i miei collaboratori, in ospedale ho cercato di testimoniare il Vangelo attraverso il servizio disinteressato verso i più deboli, curando pazienti di ogni fede, credo e casta. Questa testimonianza concreta della compassione di Dio nei confronti di coloro che soffrono non è la buona notizia che la Chiesa è chiamata ad annunciare a tutti?».
Un atteggiamento compreso dalla gente, se è vero che la prima telefonata di solidarietà dopo l’attentato è arrivata da una donna musulmana, della cui figlia ti eri fatto carico…
«“Prendersi cura” dell’altro è molto di più che restituire la salute: è soprattutto coltivare una serie di atteggiamenti che rivelano alla persona che accompagni – a qualsiasi religione appartenga – la presenza di Dio attraverso gratuità, semplicità, cordialità, ascolto e disponibilità».
Il 24 marzo scorso il principale quotidiano in inglese del Bangladesh titolava: «I malati di Dinajpur sentono la mancanza del loro medico italiano». Tu cosa provi?
«Anch’io sento molto la mancanza della mia gente. Fosse stato per me, sarei tornato in Bangladesh già mesi fa. La relazione che abbiamo costruito in questi anni con le persone povere è così bella e ricca che è come se appartenessero alla mia famiglia. E star lontano dalla propria famiglia pesa. Ma non sono io che decido. I superiori hanno giudicato più saggio che io rimanga in Italia per qualche tempo. E così sarà. Certo, nel cuore rimane sempre viva la speranza di poter rientrare in quello che considero un po’ “il mio Paese d’adozione”».
Quando è accaduto l’attentato stavi andando al Medical College, l’ospedale statale di Dinajpur. Come mai?
«Da tre anni avevo iniziato a frequentare quell’ospedale, visitando gli ammalati delle nostre missioni del Nord Bangladesh ricoverati lì».
A fine agosto la polizia ha dichiarato di aver ucciso il mandante del tuo tentato omicidio, il terrorista Khaled Hasan. Ti è capitato di pregare per chi ti avrebbe voluto uccidere?
«Sì, ho pregato per lui. (Pausa prolungata). Ma qui entriamo in un ambito molto personale. Qualcuno mi ha chiesto se ho perdonato l’attentatore: ho risposto che per me potrebbe essere relativamente facile, visto che ho avuto il grande dono di non vederlo nemmeno in faccia. Mi limito a dire che oggi prego in modo diverso, in particolare i Salmi. Prendiamo il 117: “Lodate il Signore perché è buono… Resterò in vita e annunzierò le opere del Signore; il Signore mi ha provato duramente ma non mi ha consegnato alla morte”. Nel recitarlo oggi, dopo quanto è successo, quelle parole assumono un senso nuovo e profondo».
Si dice spesso che i poveri “convertono” coloro che condividono con loro la vita, missionari compresi. È stato così anche per te?
«Una volta è arrivato al nostro centro un giovane di 19 anni, ammalato gravemente di Tbc, contagioso. Non voleva rimanere per curarsi perché aveva sulle spalle il carico della sua famiglia. Questo fatto mi ha costretto a riflettere: quel giovane viveva una situazione difficilissima, io missionario a casa ho la mia famiglia, che va avanti senza di me, se mi ammalo gravemente posso tornare in Italia, ecc. Sono i poveri che ti provocano. L’ascolto autentico ti cambia le prospettive, non sei tu missionario il protagonista…».
Perché i tuoi confratelli del Pime hanno deciso di restare in Bangladesh anche in un momento così difficile?
«Non è la ricerca di un eroismo fine a se stesso, quanto l’espressione di una condivisione che vuol essere autentica e radicale. Dove c’è terrorismo islamico, come in Bangladesh, le prime vittime sono proprio le persone che appartengono a quella fede, che viene estremizzata. Costoro non possono andarsene: allora diventa importante che noi, che ne avremmo la possibilità, rimaniamo. Per continuare a testimoniare il Vangelo».
LA BIOGRAFIA. 30 ANNI DI CARITÀ
Ordinato sacerdote nel 1984, padre Piero arriva in Bangladesh l’anno dopo. Ha lavorato per 16 anni nella zona di Rajshahi, nel Nord, impegnandosi nel servizio agli ammalati. Dopo un periodo di servizio al Pime per sette anni in Italia, dal 2008 è tornato in Bangladesh, destinato alla parrocchia di Suhiari, nei dintorni di Dinajpur, sempre nel Nord. Lì, fino a novembre 2015, ha continuato a svolgere un’attività pastorale e sanitaria: era incaricato della cura degli ammalati della parrocchia, che fanno riferimento all’ospedale Saint Vincent gestito dalla missione, oltre che consulente per gli ammalati di tubercolosi. Tutto questo in una logica di collaborazione con la sanità locale gestita dallo Stato.
Redazione Papaboys (Fonte www.famigliacristiana.it/Gerolamo Fazzini
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