«Shahbaz si batteva in prima persona per i diritti delle minoranze e ha ottenuto importanti risultati. Era una figura di riferimento e la sua uccisione è stata una grande sconfitta. Oggi la sua memoria è onorata anche da molti musulmani e i media pachistani non smettono di ricordare il suo sacrificio».
Prima di essere ucciso Bhatti aveva ricevuto numerose minacce, ma ha scelto di proseguire la sua lotta in difesa delle minoranze religiose e contro la legge anti-blasfemia, «uno strumento – diceva – spesso utilizzato impropriamente per risolvere questioni personali». Neppure l’assassinio di Salmaan Taseer, governatore del Punjab che assieme a lui si era battuto per la revisione della norma e la liberazione di Asia Bibi, è riuscito a fermarlo. «Se propongo anche un cambiamento minimo della legge sarò considerato blasfemo e verrò assassinato – aveva dichiarato in un’intervista a France 24 appena tre settimane prima di morire – Sono pronto a versare fino all’ultima goccia di sangue per combattere l’ingiustizia. Non ho paura, neanche dopo l’omicidio di Salmaan».
A tre anni dalla morte di Bhatti è ancora alta la percentuale dei cristiani tra coloro che sono accusati di blasfemia. Secondo quanto riferito dalla Commissione Giustizia e Pace, delle 32 accuse di blasfemia registrate nel 2013 ben 12 riguardavano dei cittadini cristiani: un dato altamente significativo se si considera che in Pakistan i cristiani rappresentano appena il 2% della popolazione. Allo stesso modo il numero di ragazze cristiane rapite e costrette a convertirsi all’Islam è più che raddoppiato: una piaga contro cui s’era strenuamente battuto proprio Bhatti. «È difficile dire quanto la sua scomparsa abbia influito sulla condizione dei cristiani pakistani – nota Jacob – ma la sua assenza ha lasciato sicuramente un vuoto in termini di rappresentanza politica delle minoranze. Sebbene non manchino gli sforzi per proseguire quanto Shahbaz aveva costruito».
A raccogliere l’eredità di Bhatti è stato soprattutto suo fratello Paul, presidente dell’All Pakistan Minorities’ Alliance (APMA) e già consigliere del primo ministro per le minoranze religiose, che successivamente al «martirio» di Shahbaz ha lasciato l’Italia, dove viveva da diversi anni, per tornare in Pakistan. Lo scorso anno Paul ha attribuito la liberazione di Rimsha Masih – la quattordicenne affetta da ritardo mentale accusata di blasfemia e poi assolta – all’inestimabile lavoro di suo fratello. «Io porto avanti la sua missione – ha detto ad ACS – e se raggiungiamo dei risultati, il successo è soltanto suo».
Nonostante l’assoluzione di Rimsha, la “legge nera” continua a mietere vittime innocenti. Riformarne il testo è praticamente impossibile a causa della pressione dell’opinione pubblica e delle minacce rivolte dai gruppi fondamentalisti a chiunque critichi la norma o ne caldeggi la revisione. «Sono necessarie delle modifiche che impediscano l’abuso della legge», dichiara ad ACS Peter Jacob, auspicando leggi che garantiscano una maggiore tutela delle minoranze, pari diritti per tutti i cittadini e favoriscano l’armonia interreligiosa.
«A dispetto delle enormi difficoltà – afferma l’attivista – la comunità cristiana trova ancora la forza di continuare a lottare e far sentire la propria voce. Proprio come fece Shahbaz Bhatti: una figura che incarna pienamente l’anima dei cristiani pachistani».
Marta Petrosillo
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