Quel giorno persero la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo.
Ucciso insieme agli uomini della scorta, il 19 luglio del 1992, nella strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino è stato inserito dalla speciale commissione della Santa Sede nell’elenco dei martiri della giustizia del XX secolo. E da martire, Borsellino, ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita: dopo un’altra strage, quella del collega e amico Giovanni Falcone (era il 23 maggio del ’92, con il giudice c’erano la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta).
Borsellino era diventato il “nemico numero uno della mafia
“. Ma, a esser più precisi, nel mirino dello cosche Borsellino è da anni, almeno dall’80, quando inizia ad indagare con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile sul clan dei “corleonesi” di Totò Riina e Bernardo Provenzano, allora sconosciuti “picciotti” destinati a diventare i sanguinari capi della mafia siciliana. Da quel momento, la “missione” antimafia di Borsellino diventa una strada senza ritorno.Restiamo convinti, oggi più che mai, che parti della Magistratura deviata e qualche mafioso in cravatta siano complici di questo feroce assassinio
Sono passati 30 anni da quel 19 luglio 1992, quando in via D’Amelio, a Palermo, una Fiat 126 imbottita di esplosivo veniva fatta saltare in aria davanti alla casa della madre del giudice Paolo Borsellino.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio.
Depistaggio che, dicono i giudici “ci fu”, ma che è rimasto senza colpevoli dopo il verdetto giovedì scorso che ha dichiarato prescritte le accuse rivolte a due dei poliziotti, accusati di avere inquinato le indagini sulla strage, e assolto un terzo agente. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano che, specie nei familiari delle vittime, suscita amarezza e delusione.
Il processo Borsellino ter si è concluso, invece, nel 2006, dopo che la Cassazione aveva parzialmente annullato la sentenza del 2003 della Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta trasferendo il fascicolo a Catania.
Inflitte condanne a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il ”corto” e Salvatore Biondo il ”lungo”, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto ”Nitto” Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci sono stati condannati rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione.
Condannati anche tre pentiti: Salvatore Cancemi (18 anni e 10 mesi), Giovanni Brusca (13 anni e 10 mesi), Giovanbattista Ferrante (16 anni e 10 mesi). Il Borsellino quater, invece, è diventato definitivo nel 2021 e vedeva alla sbarra due capimafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino condannati all’ergastolo per strage e i tre falsi pentiti Calogero Pulci (che ha avuto dieci anni), Francesco Andriotta (9 anni e 6 mesi) e Vincenzo Scarantino, uscito di scena per la prescrizione delle accuse.
Erano tutti imputati di calunnia. Il processo sul depistaggio, che sarebbe stato ordito attraverso la costruzione a tavolino dei falsi pentiti come Scarantino, è fresco di sentenza: alla sbarra, sempre per calunnia, ma aggravata dall’aver favorito la mafia, sono finiti tre investigatori che facevano parte del pool che indagò sull’eccidio: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Caduta l’aggravante si è prescritta la calunnia per i primi due, mentre Ribaudo è stato assolto.
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