Venerdì 4 novembre 1966 a causa del maltempo eccezionale si ebbero in gran parte della Toscana nelle prime ore del giorno fenomeni devastanti quali ad esempio lo straripamento a Firenze dell’Arno che non colpì solo il centro storico allagando i primi piani delle abitazioni ma l’intero bacino dell’Arno sia a monte che a valle della città.
Il maltempo colpì anche altre zone dell’Italia come il Veneto con lo straripamento del Piave, del Brenta e del Livenza, il Friuli con lo straripamento del Tagliamento e l’alluvione di Latisana e diversi comuni della zona, mentre in Trentino l’Adige allagò Trento.
Io ricordo che con il Seminario di Trieste ci recammo a spalare il fango nelle zone alluvionate, dove costante accanto alla disperazione e ai danni ci fu anche tanta solidarietà da ogni parte del Paese e dall’estero. Firenze in quelle prime ore del 4 novembre fu invasa da oltre 70 milioni di metri cubi di acqua tracimante dalle spallette sui Lungarni. Il torrente Mugnone, affluente dell’Arno, alle 2 ruppe gli argini e straripò presso il parco delle cascine. L’ippodromo fu allagato e trovarono la morte 70 cavalli. Anche lo zoo venne allagato. Poi un crescendo in abitazioni, negozi, la tipografia de «La Nazione», chiese, musei, biblioteche, nulla risparmiando. Venne gravemente danneggiato per l’80% tra le diverse opere d’arte il crocifisso del Cimabue conservato nella Basilica di Santa Croce. La porta del Paradiso del bel San Giovanni fu spalancata dalla furia delle acque e le formelle del Ghiberti quasi tutte si staccarono. Innumerevoli i danni ai depositi della Galleria degli Uffizi e pesantemente danneggiati migliaia di manoscritti alla Biblioteca nazionale.
Il mancato viaggio in Polonia
Le vittime furono relativamente poche: 34 di cui 17 a Firenze e 17 nei Comuni limitrofi. Ciò che allora impressionò l’opinione pubblica mondiale, oltre alle vittime, furono due fattori: il grande danno all’arte e alla cultura di cui Firenze è l’emblema e la solidarietà dei giovani che si dedicarono generosamente e gratuitamente a recuperare persone, case, suppellettili a il patrimonio artistico. Fu una vera gara di fratellanza. Questo colpì molto l’animo di Paolo VI che volle essere informato tempestivamente su tutto e dispose perché le popolazioni colpite avessero concreti aiuti da organizzazioni cattoliche. In quel periodo era giunto a Paolo VI l’invito dell’episcopato polacco a recarsi in quella terra per concludere le celebrazioni del millenario del battesimo della nazione polacca che avrebbe avuto l’apice nella celebrazione eucaristica della vigilia di Natale presso il Santuario di Czestochowa. Monsignor Casaroli e Monsignor Macchi cercarono in tutti i modi di sondare presso il governo polacco le condizioni poste per la visita papale. L’aver appreso per certo che tra queste vi era il divieto al cardinale Wyszynski di partecipare alla celebrazione papale indusse Paolo VI a non mortificare il primate polacco, vero testimone di una Chiesa fedele e indomita, e ad avere accanto in quella notte di Natale non chi gioisce per un grande evento quale la memoria delle radici cristiane ma coloro che avevano bisogno di speranza e condivisione nel momento della prova: la gente di Firenze.
Quelle duecentomila fiaccole
Paolo VI volle che il suo viaggio fosse semplice e non intralciasse il lavoro dell’esercito e dei volontari. Avuta assicurazione chiese a monsignor Macchi di rendere possibile la sua presenza a Firenze secondo i suoi desideri e di far giungere il suo messaggio di vicinanza a tutte le popolazioni colpite dall’alluvione e un grazie a chi è accorso quale buon samaritano. La sera del 24 dicembre Paolo VI verso le 21 giunge a Firenze dove sono ad attenderlo con fiaccole più di duecentomila persone.
Prima di fermarsi davanti alla Basilica di Santa Croce il Papa volle attraversare i rioni più colpiti dall’alluvione. Lì sul sagrato della Basilica tanto cara per ciò che di prezioso custodisce della fede e della cultura, Paolo VI rivolse la sua parola alla gente che, pur non aspettandosi la presenza del Papa, tanto apprezzò il suo gesto in un momento come quello. Papa Montini disse di voler «tutti salutare, tutti consolare, tutti beneficare» e formulò «l’augurio che bisogna far risorgere questa città più bella, più buona, più unita di prima». Lì Paolo VI consegnò pacchi-viveri ad alcuni alluvionati quale segno degli aiuti che aveva fatto pervenire alla diocesi affinché li distribuisse alla popolazione. Prima della Messa della Notte il Papa incontrò in Arcivescovado tutti i sindaci delle città colpite dall’alluvione. Il Papa chiese di indossare i paramenti nel Battistero di San Giovanni che i volontari avevano ripulito dal fango. Entrò processionalmente a Santa Maria del Fiore gremita da migliaia di fedeli. E durante l’omelia si commosse mentre pronunciava la frase: «Siamo venuti per condividere la speranza che vi ha tutti sostenuto nella sventura per essere noi stessi confortati».
“Ma risorgerà”
Prima della conclusione della Messa Paolo VI disse a monsignor Macchi di far avvicinare all’altare il sindaco con coloro che portavano il gonfalone della città appuntando su questo la medaglia d’oro del Concilio Vaticano II. Un gesto significativo per la prospettiva ecumenica che Papa Montini si attendeva proprio a Firenze dove si svolse il Concilio che sancì formalmente l’unione tra cattolici e ortodossi. Prima di lasciare Firenze Paolo VI volle rendersi conto dei danni che il crocifisso di Cimabue aveva subito e si recò in macchina accompagnato dal cardinale Florit, arcivescovo di Firenze, verso la località di Boboli dove alcuni specialisti avevano preso in consegna per il restauro il prezioso crocifisso. Constatato il grave danno, con spontaneità disse a Florit: «Ecco la vittima più illustre dell’alluvione», e si raccoglie in preghiera e poi soggiunge: «Ma risorgerà».
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Ettore Malnati)
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