Il Papa e il vescovo. Roma e El Salvador. I cardinali e i contadini. Le critiche e l’omicidio. Sono luoghi, contesti e livelli totalmente differenti quelli in cui si è consumata la vicenda terrena di Paolo VI e monsignor Oscar Arnulfo Romero, intrecciati tuttavia da una trama sottile che è l’aver «dato la vita per amore alla Chiesa», concludendo la propria esistenza come martiri.
Un martirio “bianco” quello del Pontefice che soffrì per gli attacchi e le contestazioni ricevute «da destra e da sinistra», anche dai suoi stretti collaboratori, per scelte come la pubblicazione dell’Humanae vitae o l’aver escluso i cardinali ultraottantenni dal Conclave e per la “lentezza” nell’applicazione della riforma voluta dal Concilio, tanto da far esclamare al cardinale Pironio: «Credo che sia il Papa che ha più sofferto in questo secolo». Quello del vescovo fu invece un martirio “rosso”, rosso come il sangue versato su un altare mentre celebrava la messa nella cappella di un ospedale e un colpo di pistola sparato da un sicario degli “squadroni della morte” gli ha trapassato il petto.
In vista di questo evento sono i due cardinali Angelo Becciu, prefetto delle Cause dei Santi, Gregorio Rosa Chavez, ausiliare di San Salvador, tra le persone più vicine a Romero, a fare un ritratto dei due – ancora per poco – beati, in una conferenza in Sala Stampa vaticana scandita da aneddoti, ricordi, cenni biografici. E anche dalla proiezione di alcuni minuti di un inedito documentario dove è Romero negli ultimi anni della sua vita a parlare davanti alle telecamere di una Tv svizzera incaricata di seguirlo per una settimana (il documentario è stato diffuso all’epoca solo in tedesco e, dopo quarant’anni, tradotto in spagnolo per la canonizzazione).
In particolare è una scena a sintetizzare la forza profetica e la fede dell’arcivescovo salvadoregno, in cui un giornalista gli domanda: «Ha paura di essere ammazzato come è stato ammazzato padre Rutilio Grande?» (il sacerdote del Salvador assassinato nel 1977 mentre si recava a celebrare la messa, ndr). «Paura propriamente no, certo un timore prudenziale ma non una paura che mi inibisce, che mi impedisce di lavorare», risponde Romero nel filmato. «Sono in tanti a dirmi che devo stare un po’ attento, che non devo espormi… ma io sento che sto camminando nel compimento del mio dovere, che mi muovo liberamente per essere un pastore delle comunità. Dio è con me e se qualcosa mi succede, sono disposto a tutto».
Parole che hanno suscitato grande emozione tra i giornalisti in sala. Emozionato era pure il cardinale Becciu nel condividere i ricordi su Paolo VI, «il Papa della nostra gioventù», e nel riportare la gioia dello stesso Francesco per la celebrazione di domenica: «Mi disse all’inizio del suo pontificato che sperava e pregava di poter canonizzare Paolo VI».
Il porporato ha quindi offerto «alcuni flash», come ha detto, della vita e del pontificato di Montini entrambi caratterizzati dalla «umiltà» e dalla «capacità di soffrire». Paolo VI «bastava vederlo per capire la sua umiltà, non artificiosa ma naturale» espressa in gesti come baciare la terra dei luoghi che visitava o i piedi del metropolita di Calcedonia Melitone nella Cappella Sistina. «Un senso di umiltà che lo portava a mettersi spontaneamente in ginocchio davanti a Dio e agli uomini» ha detto Becciu, ricordando la lettera alle Brigate Rosse per la liberazione dell’amico Aldo Moro: «Vi supplico in ginocchio…».
«La sua faccia era sempre austera – ha ricordato il prefetto dei Santi – qualcuno diceva è triste, non manifesta gioia… Prima del Conclave un cardinale disse al suo segretario, don Macchi: “è un bravo arcivescovo, diventerà Papa, ma gli consigli di sorridere un po’ di più”. Non era l’uomo del sorriso ma, più che una gioia esterna, la sua era una serenità profonda nel cuore». Questa «difficoltà caratteriale era anche conseguenza della coscienza del male, del peccato, e delle sofferenze intorno». Quelle che Montini subì da giovane conoscendo i totalitarismi, che visse durante gli anni difficili del ’68 quando venivano occupate, anche da cattolici, chiese e cattedrali («Una cosa mai vista!») e che durante il suo pontificato furono provocate dalle critiche del cardinale Suenens, grande amico tanto da volerlo al fianco durante un Angelus, che lo accusava di non essere andato avanti nel processo di riforma richiesto dal Concilio o dalle contestazioni del cardinale Tisserant per il motu proprio che abbassava l’età dei cardinali per l’accesso al Conclave. Il Pontefice fu «attaccato da destra e sinistra» e lui portava «nel suo intimo» queste sofferenze «per amore alla Chiesa» per la quale chiese preghiere fino a poche ore prima della morte, ha sottolineato il cardinale Becciu.
Paolo VI, tuttavia, ha proseguito, fu anche «uomo del dialogo». Con la celebre enciclica Ecclesiam Suam «invitava ad avere una nuova mentalità nei rapporti e nell’apertura verso tutte le categorie e realtà sociali ed ecclesiali». Fu anche autore di documenti storici come la Populorum Progressio e l’Humanae vitae, quest’ultima scritta «pur sapendo di diventare impopolare» ma nella consapevolezza di «dover rispondere alla propria coscienza e farla prevalere sull’applauso». Paolo VI, insomma, è stata «una luce nonostante le oscillazioni della storia che si è accesa e non si spegnerà mai più», ha concluso Becciu.
Prendendo la parola, Rosa Chavez, il primo vescovo ausiliare a ricevere la porpora, ha illustrato invece gli eventi che scandiscono la “settimana di Romero a Roma” che vede la partecipazione di centinaia di salvadoregni. Essa si concluderà lunedì 15 ottobre con un’udienza speciale in Aula Paolo VI con il Papa che, in quell’occasione, confermerà anche una sua eventuale visita in El Salvador in occasione della Gmg di Panama del gennaio 2019. «A noi vescovi – ha detto il cardinale – il Santo Padre ha confidato che gli piacerebbe l’idea di visitare il nostro Paese. Gli abbiamo chiesto di recarsi almeno alla tomba di Romero. “No no, anche qualcos’altro, anche di più. Magari una messa…”, ci ha risposto. E al nuovo nunzio ha detto: “Pregate per il Papa perché possa baciare la terra del Salvador”. Lunedì avremo forse una risposta».
Il cardinale ha poi parlato di Romero e del suo assassinio che, ancora oggi, rimane oscuro in alcuni dettagli. Ad esempio il legame tra gli “squadroni della morte” e i militari argentini come risulta da una lettera allora inviata dalla nunziatura di Buenos Aires, tramite il nunzio in Costarica, allo stesso Romero, in cui il vescovo veniva avvertito una settimana prima della sua morte (lui appuntò questo annuncio sui suoi diari).
Oscar Arnulfo Romero è stato il «santo di quattro Papi», ha detto il porporato: Paolo VI che «fu per lui guida e maestro»; Giovanni Paolo II che durante la sua visita nel Salvador, a dispetto di una parte del clero che definiva Romero una figura troppo «politicizzata», «entrò nella cattedrale dove era stato ucciso e disse che era un santo»; Benedetto XVI che lo definì «un grande testimone della fede, e infine Papa Francesco che ha “sbloccato” la causa di beatificazione e che già da cardinale lo indicò come «un santo e un martire», aggiungendo: «Se fossi Papa lo canonizzerei».
Una promessa mantenuta, quindi, la canonizzazione di domenica che Rosa Chavez ha definito «uno tsunami che avrà conseguenze in tutto il mondo», a partire dal suo Paese che solo adesso comincia a «conoscere chi era veramente» questo uomo «timido, timidissimo» che, «pur essendo di natura conservatore», divenne «progressista» per la realtà di violenza e persecuzione che lo circondava e che lo spinse a reagire. «Dio me lo chiede», amava ripetere lo stesso Romero. Oggi, ha aggiunto il cardinale, «è nostro compito seguire il suo esempio». Tutti, anche «le tante persone che lo hanno perseguitato in vita e che ora si pentono sulla sua tomba».
di Salvatore Cernuzio per Vatican Insider
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