Quando Paolo VI morì, un gruppo noto con il nome di Civiltà cristiana affisse sui muri di Roma un manifesto ignobile per infangare la memoria del Papa appena scomparso: «Adesso vogliamo un papa cattolico». Per quei fondamentalisti cattolici tra le colpe che inchiodavano papa Montini all’accusa di alto tradimento della ‘civiltà cristiana occidentale’ vi era anche l’enciclica Populorum progressio, annunciata al mondo il giorno di Pasqua, 26 marzo 1967.
Nello stagnante clima della guerra fredda, il Papa con quell’enciclica aveva fatto l’«errore», secondo i critici, di non dividere il mondo tra Est e Ovest, ma ‘osato’ invece testimoniare che la vera cortina di ferro era quella che divideva il Nord e il Sud del mondo, «i popoli dell’opulenza» dai «popoli della fame». Una drammatica quanto semplice constatazione, che aveva però il torto di infrangere il vecchio totem dei tanti fautori dello scontro e dell’equilibrio di potere di allora: quello del Papa schierato con il fronte dell’Occidente.
Per questi tutori dell’ordine, che avrebbero voluto che la Chiesa rinnegasse la neutralità politica chiaramente e coraggiosamente affermata da Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1951, il semplice parlare di capitalismo «fonte di tante sofferenze», come aveva fatto Paolo VI nell’enciclica, era equivalso a entrare in complicità con il nemico rosso. Così alcuni dissero che si trattava di «marxismo riscaldato», altri che era la dimostrazione di come la Chiesa tendesse a fare politica invece di occuparsi dei problemi spirituali che la riguardano, altri ancora la giudicarono piena di equivoci, perché la Chiesa, secondo questi, non può avere le capacità per l’analisi e la diagnosi dei fenomeni economici.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, è fin troppo facile riconoscere quanto pertinente sia stata invece l’analisi profetica contenuta nell’enciclica del 1967. Basta leggere i numeri della fame che diminuisce ma resta enorme, le cronache delle guerre, le sofferenze e l’ingiustizia sociale che hanno pagato e pagano sempre molti Paesi nell’epoca della globalizzazione. Né è difficile riconoscere come la Populorum progressio esplicitamente si riferisca all’insegnamento tradizionale della Chiesa sulla destinazione universale dei beni, che trova il suo fondamento nella prima pagina della Bibbia e ne estende il principio, ricordato, tra gli altri, da san Tommaso d’Aquino e sant’Ambrogio alle comunità politiche. È facile perciò riconoscere come gli insegnamenti in essa contenuti conservino ancora tutta la loro forza di richiamo. Ma oggi come allora di quel documento si fa ancora fatica a intendere e a promuovere realmente l’ultima, più profonda ragione. E cioè che la preferenza per i poveri non è un pedaggio passeggero ai sociologismi ma attinge al cuore stesso della grande Tradizione della Chiesa. Quella con la T maiuscola, che stima e custodisce i suoi due unici tesori: la fede tramandata dagli apostoli e i poveri, i popoli della fame che per primi sono chiamati a godere della grazia della fede. Perché da sempre la Chiesa gioisce di questi beni, di questi due depositi inestinguibili di ricchezza: il bene della fede, il depositum fidei, e i poveri, che della sua ricchezza sia spirituale sia materiale sono i destinatari e i fruitori privilegiati. Da qui aveva preso forma l’enciclica montiniana, «dettata dalla luce che ci viene dalla fede». I n questa prospettiva c’è un dato cronologico importante che pochi hanno messo in luce quanto dovuto. Proprio un mese prima della pubblicazione della Populorum progressio, il 22 febbraio 1967, festa della Cattedra di san Pietro, Paolo VI con l’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos manifesta l’intenzione di indire un anno giubilare particolare: l’Anno della fede, in occasione dei 1900 anni del martirio a Roma degli apostoli Pietro e Paolo. In quell’anniversario il Papa chiamava tutta la Chiesa a far memoria della fede trasmessa in eredità dai due apostoli, nella domanda umile di poter fare della realtà di quella fede la loro stessa viva esperienza, di poter incontrare e sorprendere i gesti di quella stessa Presenza che duemila anni prima aveva attratto poveri pescatori e peccatori. «La testimonianza della nostra fede, ecco ciò che noi vogliamo portare davanti a Dio e davanti agli uomini». E alla fine di quell’anno, il 30 giugno 1968, Paolo VI pronunciava in piazza San Pietro la solenne professione del Credo del popolo di Dio, con cui intendeva, come pura e semplice testimonianza, «attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al deposito della fede».
Il Papa aveva agito in quanto Pietro: non formulò sue idee né pensieri personali, prestò la sua bocca alla grande voce della Chiesa universale. Un atto che garantiva la libertà dei suoi figli proteggendoli contro ogni condizionamento da parte di altre forze che non fossero quelle dello Spirito di Gesù, e che s’inscriveva perfettamente nelle esigenze derivanti dai segni dei tempi. Ma i cattolici di allora non colsero quell’intuizione profetica di papa Montini. E anche il Credo del popolo di Dio venne accolto con riserve. Per teologi e intellettuali si trattava di «atti pietistici». Per i reazionari al contrario era pentitismo tardivo, visto che secondo loro la confusione nella Chiesa era stata innescata da quel rinnovamento conciliare di cui Montini era stato il timoniere. Per i chierici di ogni tendenza la semplice riproposizione dei contenuti tradizionali della fede cattolica pareva una risposta troppo minimale. Quell’anno di fatto segnò un crinale nel pontificato montiniano. Ma cosa aveva spinto Montini a compiere quel passo? Non fu tanto l’immoralità del mondo o la negazione teorica del cristianesimo, a quel tempo già sfacciata, ad aver condotto Paolo VI alla decisione di indire l’Anno della fede.
Ciò che vide Paolo VI era il sintomo di qualcosa di più tragico e radicale. La perdita della percezione di cosa sia veramente il cristianesimo, la natura e la dinamica della vita cristiana. E già negli anni che precedono il 1967 l’allarme contenuto nei discorsi di Paolo VI è un altro: la Chiesa viene demolita non dall’ateismo moderno ma dai suoi stessi figli. La malattia è interna, è un cupio dissolvi che sembra aver avvelenato i maestri, i chierici e le accademie ecclesiastiche, prima ancora che il popolo, e li spinge a uno svuotamento dall’interno della natura e del metodo del fatto cristiano. «Vengono alle labbra le parole di Gesù: ‘ inimici hominis, domestici eius, i nemici dell’uomo saranno i suoi di casa!’», dirà il Papa il 18 settembre 1968, a nemmeno tre mesi dalla proclamazione del Credo. Nel mondo in ebollizione di allora e di fronte alle corrosive contraffazioni di un cattolicesimo di marca ideologica, Paolo VI aveva voluto semplicemente ripetere e posare il suo sguardo sugli unici tesori della Chiesa. Per questo il Credo del popolo di Dio e l’enciclica Populorum progressio vanno letti insieme.
Tutto l’establishment cattolico, salvo rare eccezioni, lasciò cadere nel nulla quella lucida intuizione. Ed è paradossale che al Papa che indica di tornare alla Tradizione, di ripetere la dottrina degli apostoli e rimanere in essa, si faccia il vuoto intorno. E l’Anno della fede e il Credo del popolo di Dio furono inghiottiti dal fronte del silenzio, trasversale e ramificato. Si manifestava così qual era la vera radice dell’incomprensione, della muta ostilità e delle contestazioni sempre più frequenti che il Papa subirà all’interno della Chiesa. E l’idea che il pontificato montiniano avesse subìto a partire dal 1967-68 un’involuzione deludendo le speranze iniziali divenne tanto diffusa negli ambienti clericali da essere evocata a metà degli anni Settanta al convegno ecclesiale su «Evangelizzazione e promozione umana». In quel momento tracimarono giudizi sempre meno cauti nell’esternare perplessità e sarcasmi nei confronti di Montini. Pochi osavano testimoniare pubblicamente la solidarietà verso un Papa alla fine irriso anche nelle assemblee ecclesiali.
Tra questi pochi l’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani. Nell’omelia pronunciata il 18 settembre 1977 al Congresso eucaristico nazionale di Pescara, Luciani aveva dato sincera adesione agli unici beni della Chiesa e dichiarato la comunione con il Papa: «Il Pietro che abbiamo sentito nel Vangelo vive oggi nella persona di Paolo VI, suo successore. Ma di Paolo VI ce ne sono due: quello che abbiamo visto iersera qui a Pescara, che si vede e si ascolta nelle udienze generali e private, e quello che descrivono, alla loro maniera, inventando e stravolgendo, certi libri e giornali. Vero, autentico, è soltanto il primo, al quale è toccato di svolgere l’alta missione in tempi difficili». E così concludeva colui che fu poi chiamato a succedergli al Soglio di Pietro: «A questo martire noi siamo vicini con la preghiera, con la fedeltà, con corrispondenza sempre maggiore per quanto attiene la fede degli apostoli da conservare, la vita cristiana da vivere esemplarmente, il sostegno dei poveri, lo sviluppo dei popoli e l’opera fattiva per cooperare alla giustizia e alla pace nel mondo». Questo è ciò che scaturisce dalla fedeltà al cuore della Tradizione. La storia è sempre maestra. Mutatis mutandis.
Fonte www.avvenire.it/Stefania Falasca
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