Dopo la riapertura della cattedrale, il 25 marzo, Papa Francesco domenica 2 aprile sarà in vista pastorale a Carpi. «È stata proprio una sorpresa, inattesa», confida il vescovo, mons. Francesco Cavina, parlando della cattedrale riaperta ma anche delle chiese ancora chiuse. E della difficoltà di guidare una comunità sconvolta dal sisma».
La vita vince sulla morte, la ricostruzione cancella la distruzione provocata dal terremoto. Questo il messaggio che consegna la riapertura della cattedrale di Carpi, sabato 25 marzo, e che verrà suggellato domenica prossima, 2 aprile, dalla visita pastorale di papa Francesco alla diocesi. Una visita che Bergoglio ha voluto quasi a sorpresa e con un carattere «familiare». Il Sir ne parla con mons. Francesco Cavina, dal 2012 vescovo di Carpi.
Cosa rappresenta la riapertura della cattedrale per la diocesi carpigiana?
«Il significato è sintetizzato nel motto che l’ha accompagnata: «Vita semper vincit», la vita sempre vince. Non è solo la capacità della vita umana di riemergere: per un cristiano questa è soprattutto la vita di Cristo morto e risorto che abita in noi, garanzia che la vita sempre trionferà, anche se a volte sembra essere sconfitta. Dal terremoto, simbolo di morte e distruzione, è riemersa la vita con questo bellissimo luogo di culto che è la cattedrale, ora ancora più bello, ricco e splendente».
Nel corso della celebrazione eucaristica per la solenne riapertura, lei ha ricordato che dopo anni in cui era rimasta «muta a causa delle gravi ferite inferte dal terremoto», la chiesa cattedrale ora «torna a essere un corpo vivo»…
«La nostra cattedrale torna a essere ciò per cui è stata voluta, simbolo dell’incontro tra il cielo e la terra, che trova la sua espressione più alta, bella e significativa nella celebrazione della liturgia. Per questo all’inaugurazione abbiamo cercato di far gustare proprio la bellezza della liturgia. Mi hanno colpito le centinaia di messaggi ricevuti inaspettatamente da tanti giovani, che mi ringraziavano per questa celebrazione. Più di uno mi ha scritto: “Ho gustato un momento di paradiso”. Questa è la vita che trionfa».
Lei è divenuto, suo malgrado, il vescovo del terremoto e, poi, della ricostruzione. Come si vive il ministero episcopale in questi frangenti?
«Sicuramente non è facile, soprattutto nei primi tempi, quando emerge il senso della morte e della distruzione. Questo in tante persone suscita amarezza, depressione e anche ribellione nei confronti di Dio. Sono stati mesi faticosi. La prima preoccupazione è, di fronte a tragedie di questa portata, come mantenere viva la speranza. Benedetto XVI, in visita a Rovereto, ci invitò proprio a non perdere la speranza. Ma la speranza – l’ho ripetuto più di una volta – non va confusa con un facile ottimismo. È una virtù teologale e in quanto tale è frutto della nostra immersione nella morte e nella risurrezione di Cristo attraverso il sacramento del battesimo. Il terremoto ci costringe a tornare alle radici vere della nostra esistenza e del nostro essere cristiani. E pian piano anche da quest’esperienza emergono elementi di positività, segno che il Signore sa tirar fuori il bene ovunque».
In mezzo al terremoto è più difficile mantenere la fede o la speranza?
«Penso sia più difficile mantenere la speranza. Tutti crediamo in qualcosa o qualcuno: se non in Dio, nelle nostre capacità, nel denaro, nel successo… La fede è presente pressoché in tutti, la speranza no. Quest’ultima, per i cristiani, è la virtù specifica che nasce dall’incontro con il Signore».
A cinque anni dal terremoto è stata aperta la cattedrale di Carpi, dedicata a Santa Maria Assunta, ma sono oltre una trentina le chiese tuttora chiuse, di cui 10 con cantieri in corso e le altre in fase progettuale. Il cammino è ancora lungo?
«La situazione, per quanto riguarda le chiese, è abbastanza critica. Il presidente della Regione ha garantito che nel 2017 si apriranno tutti i cantieri: forse è una prospettiva ottimistica, ma speriamo che si realizzi. Sarei contento se la ricostruzione nei prossimi 2-3 anni potesse dirsi conclusa».
Passiamo ora alla visita di papa Francesco, annunciata lo scorso 28 febbraio, con appena un mese di anticipo. Una sorpresa anche per lei?
«Sì, è stata proprio una sorpresa, inattesa. Il 18 febbraio il Papa mi ha telefonato, dicendo che mi aspettava a Roma due giorni dopo. C’è stato un lungo colloquio, e a un certo punto sorridendo mi ha detto: «Ho deciso di venire a Carpi prima di Pasqua». Precisando che sarebbe venuto a fare una visita pastorale, con un carattere familiare».
Quale significato ha per la diocesi, e per lei, la visita?
«È motivo di grande gioia; rappresenta un riconoscimento per il lavoro che è stato fatto, per l’impegno, la fatica e le sofferenze di questi anni. Al tempo stesso l’avverto come una grande responsabilità. In cinque anni ho accolto due Papi in diocesi. E nel 1988 Carpi è stata visitata da Giovanni Paolo II. Sento queste visite come una responsabilità e m’interrogo su come mantenere vivi e far fiorire questi doni che il Signore ci ha fatto. Così nasce in me anche un senso di impegno a far sì che le parole che il Papa ci dirà diventino la guida della nostra vita ecclesiale».
Verranno coinvolte anche le diocesi vicine, in particolare quelle colpite dal terremoto?
«La mattina certamente, durante la Messa in piazza Martiri. Non possiamo pensare di chiudere la visita del Papa a Carpi e godere in maniera esclusiva di questo privilegio che abbiamo ottenuto».
Poi, come ultima tappa, la visita a Mirandola, con la sosta al monumento dedicato alle vittime del terremoto a San Giacomo Roncole…
«L’ho chiesto espressamente al Papa, perché potesse vedere direttamente i danni provocati dal terremoto, soprattutto osservando il duomo di Mirandola che è tuttora in condizioni disastrose. Sarà una visita simbolica ai luoghi ancora segnati dal terremoto, a quelle ferite – materiali ma anche e soprattutto spirituali – tuttora aperte, e che necessitano di essere definitivamente rimarginate».
Di Francesco Rossi