Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Dobbiamo essere una Chiesa “in uscita”, “non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali”. Guarendo la memoria della nostra storia, con la Siberia, i ghetti di Vilnius e di Kaunas, l’occupazione e la deportazione, per “coinvolgersi nella costruzione del presente”. Papa Francesco è a Kaunas per la prima Messa di questo suo viaggio in Lituania e poi in Lettonia ed Estonia, e nel parco Sàntakos dedica l’omelia all’insegnamento di Gesù ai discepoli a metà del suo cammino verso Gerusalemme e la sua Passione, raccontato da san Marco.
E come se Gesù, spiega il Papa, “volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore”.
La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili.
l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento.
Francesco guarda le decine di migliaia di fedeli lituani e prosegue: “Quanti di voi potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto”.
Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri.
E qui cita l’apostolo Giacomo, che nella sua Lettera racconta di coloro che “bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra”. Ma i discepoli, spiega il Pontefice, “non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce; non vogliono sapere nulla di prove e di angosce”. E “tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande”.
Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri.
E così, prosegue Francesco, “neghiamo la nostra storia”, e qui cita la Evangelii Gaudium “che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso”. Questo è un atteggiamento sterile e vano “che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele”.
Non possiamo essere come quegli “esperti” spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di “quello che si dovrebbe fare”.
Gesù, prima di parlare ai discepoli, mette un bambino al centro. “Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica?” Si chiede Francesco.
Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici.
Se sono in mezzo, nessuno, chiarisce il Papa, può far finta di non vedere, nessuno può sostenere che “è responsabilità di altri”. “Senza protagonismi, senza voler essere applauditi o i primi”. Perché se a Vilnius “è toccato al fiume Vilnia offrire le sue acque e perdere il nome rispetto al Neris; qui, è lo stesso Neris che perde il nome offrendo le sue acque al Nemunas”.
Ma sapendo che quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada.
Accogliamo Gesù nella sua parola, nell’Eucaristia, nei piccoli, conclude il Pontefice. ”affinché Egli riconcili la nostra memoria e ci accompagni in un presente che continui ad appassionarci per le sue sfide, per i segni che ci lascia”. Per sentire “come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti”. Perché ci sentiamo solidali con l’umanità – di questa città e di tutta la Lituania – e con la sua storia, “vogliamo donare la vita nel servizio e nella gioia, e così far sapere a tutti che Gesù Cristo è la nostra unica speranza”.
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