Debora Donnini – Città del Vaticano
Come per gli Apostoli, anche per noi è possibile un incontro personale con il Signore, che bussa alla nostra porta “assetato, forestiero, nudo”, “chiedendo di essere incontrato e assistito, chiedendo di poter sbarcare”. Nel suo volto possiamo riconoscere quello “dei poveri, degli ammalati, degli abbandonati e degli stranieri che Dio pone nel nostro cammino”. È a partire da qui che Papa Francesco rivolge un invito alla conversione dipanando l’omelia della Messa celebrata stamani a Santa Marta su quell’incontro che non lascia indifferenti, ma investe “della stessa missione degli Apostoli” perché incontro e missione – sottolinea – non vanno separati.
Quest’anno alla Messa per l’anniversario della visita a Lampedusa partecipa solo il personale della sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale per la situazione sanitaria provocata dalla pandemia, mentre l’anno scorso alla Celebrazione eucaristica all’Altare della Cattedra della Basilica Vaticana presero parte 250 persone, fra migranti e quanti sono impegnati per salvare le loro vite.
L’8 luglio del 2013, dunque, il Papa metteva piede a Lampedusa, nel suo primo viaggio fuori dal Vaticano. Memorabili le immagini di quel giorno. La corona di fiori lanciata dalla motovedetta in memoria delle vittime morte in quel Mare Mediterraneo che si trasforma spesso in cimitero. Ma memorabili furono anche le parole del Papa nell’omelia con il richiamo a quella cultura del benessere che ci fa vivere in “bolle di sapone”, belle ma illusorie, che portano alla “globalizzazione dell’indifferenza”.
Il suo pensiero si sofferma sull’esperienza di quel giorno, sui racconti dei migranti:
C’erano degli interpreti. E uno raccontava cose terribili nella sua lingua. E l’interprete sembrava tradurre bene, ma questo parlava tanto e la traduzione era breve. “Ma – pensai – si vede che questa lingua per esprimersi ha dei giri più lunghi”. Quando sono tornato a casa, il pomeriggio, nella reception, c‘era una signora – pace alla sua anima; se n’è andata – che era figlia di etiopi. Capiva la lingua e aveva guardato alla tv l’incontro. E mi ha detto questo: “Senta, quello che il traduttore etiope le ha detto non è nemmeno la quarta parte delle torture, delle sofferenze, che hanno vissuto loro”. Mi hanno dato la versione “distillata”. Questo succede oggi con la Libia: ci danno una versione “distillata”. La guerra, sì, è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare.
Il popolo di Israele aveva sperimentato come prosperità e ricchezza lo avessero allontanato dal Signore, riempiendogli il cuore di “falsità e ingiustizia”, evidenzia il Papa. “Un peccato da cui anche noi, cristiani di oggi, non siamo immuni” afferma, ricordando quanto detto da Gesù.
Se avessimo ancora qualche dubbio, ecco la sua parola chiara: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”». «Tutto quello che avete fatto…», nel bene e nel male! Questo monito risulta oggi di bruciante attualità. Dovremmo usarlo tutti come punto fondamentale del nostro esame di coscienza, quello che facciamo tutti i giorni. Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti. «Tutto quello che avete fatto… l’avete fatto a me».
La Vergine Maria, Solacium migrantium (aiuto dei migranti), “ci aiuti a scoprire il volto del suo Figlio in tutti i fratelli” costretti a fuggire dalla loro terra per le ingiustizie del mondo, prosegue Papa Francesco. La ricerca del volto del Signore è infatti “la nostra meta ed è anche la nostra stella polare” che non ci fa smarrire, sottolinea ribadendo che l’incontro con l’altro è anche incontro con Cristo, come aveva evidenziato anche ai partecipanti al meeting “Liberi dalla paura” nel febbraio dello scorso anno.