In un lungo e intenso discorso in spagnolo, Papa Francesco incoraggia il lavoro del Segretariato per la Giustizia sociale e l’Ecologia della Compagnia di Gesù a proseguire nel suo servizio ai “crocifissi del nostro tempo”. Serve una vera rivoluzione culturale. Non si tratta solo di risolvere i problemi ma soprattutto di generare processi mettendo le persone in grado di creare il loro futuro
Debora Donnini – Città del Vaticano
Il servizio ai poveri, l’educazione, l’attenzione ai rifugiati, la difesa dei diritti umani. Nel discorso rivolto alle oltre 200 persone ricevute stamani in udienza in Vaticano, che partecipano all’Incontro del Segretariato per la Giustizia sociale e l’Ecologia della Compagnia di Gesù (SJES), il Papa chiede di continuare sulla strada di quell’“impegno creativo” proprio della loro missione al servizio degli ultimi. Nato nel 1969 per volere di padre Pedro Arrupe – che fu Preposito generale dal 1965 fino all’83 – il Segretariato è riunto da lunedì’ scorso fino a domani a Roma, in occasione dei suoi 50 anni di vita e per rilanciare proprio questo impegno sociale.
Cuore dell’esortazione del Papa è di seguire Cristo nel servizio “ai crocefissi del nostro tempo”, con riferimenti alle tante situazioni di ingiustizia in quella che, diverse volte, ha definito una terza Guerra mondiale combattuta a pezzi. Si va dalla tratta di esseri umani alle espressioni di xenofobia, dalla ricerca egoistica di interessi nazionali alla disuguaglianza fra Paesi e al loro interno, che cresce con una progressione che il Papa chiama geometrica, fino al maltrattamento della casa comune che colpisce, alla fine, soprattutto i più poveri.
Per “seguire” concretamente Gesù in queste circostanze, il Papa ricorda che bisogna innanzitutto accompagnare le vittime, ma anche smascherare i mali del mondo e generare quella creatività apostolica e profondità che padre Adolfo Nicolas, anch’egli Preposito generale, tanto desiderava per la Compagnia. “La nostra risposta” avverte però il Papa, non può fermarsi qui. Quella che chiede il Papa è una vera “rivoluzione culturale”, una trasformazione di sguardo e atteggiamento.
E poiché i mali sociali spesso si radicano nelle strutture di una società con un potenziale di dissoluzione e morte, serve un lento lavoro di trasformazione delle strutture, attraverso la partecipazione al dialogo pubblico, là dove si prendono decisioni che incidono sulla vita degli ultimi. In sostanza, li esorta a quell’impegno creativo di servizi sociali in una moltitudine di campi, che gesuiti di ieri e di oggi hanno portato e portano avanti. Un impegno creativo che ha sempre bisogno di rinnovamento in una società dai cambiamenti veloci. Ma li invita anche con decisione ad aiutare la Chiesa “nel discernimento che anche oggi dobbiamo fare sui nostri apostolati”. E, infine, a continuare a collaborare in rete con altre organizzazioni ecclesiali e civili al servizio dei più svantaggiati in un modo sempre più globalizzato. Si tratta di una globalizzazione, osserva il Papa, “sferica” che annulla le identità culturali, religiose e personali mentre una vera globalizzazione dovrebbe essere poliedrica: unirci ma conservando ciascuno la sua peculiarità.
Il Papa chiede, poi, che il cambiamento parta dai poveri stessi e, richiamandosi all’Incontro con i movimenti popolari in Bolivia nel 2015, ricorda che quando i più umili si organizzano, diventano autentici “poeti sociali”, creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di cibo, soprattutto per coloro che vengono scartati dal mercato mondiale.
L’apostolato sociale è per risolvere problemi? Sì, ma soprattutto per promuovere processi e incoraggiare speranze. Processi che aiutino a far crescere le persone e le comunità, che le portino a essere consapevoli dei loro diritti, a dispiegare le loro capacità e a creare il proprio futuro.
La strada è, quindi, quella di seminare la speranza cristiana per aprire il futuro, generando alternative. Frequentare il futuro come dice un letterato attuale.
Quindi il Papa evidenzia che nel dolore dei fratelli e della casa comune è necessario contemplare il mistero del crocifisso per essere di capaci di dare la vita fino alla fine come hanno fatto i compagni gesuiti dal 1975: quest’anno si celebra il 30.mo anniversario del martirio dei gesuiti dell’Università centroamericana di El Salvador, che spinse padre Kolvenbach a chiedere aiuto ai gesuiti di tutta la Compagnia e molti risposero generosamente. “La vita e la morte dei martiri sono un incoraggiamento al nostro servizio agli ultimi”, rimarca Francesco.
La Compagnia di Gesù fu chiamata fin dall’inizio al servizio dei poveri con una vocazione che sant’Ignazio incorporò nella Formula del 1550. Così i gesuiti si sarebbero dedicati “alla difesa e alla propagazione della fede e al profitto delle anime nella vita e nella dottrina cristiana”, così come “a riconciliare i disperati”, aiutare chi si trova in carcere o in ospedale ed esercitare ogni altra forma di carità. Una tradizione che è arrivata fino ai nostri giorni, osserva ancora Francesco richiamandosi alle parole di padre Arrupe, che intendeva appunto rafforzarla. Avendo fatto esperienza del contatto con il dolore umano, scriveva di aver visto Dio così vicino a coloro che soffrono che in lui si accese il desiderio ardente di “imitarlo in questa volontaria vicinanza” a coloro che il mondo scarta, ricorda il Papa facendo riferimento a quella cultura dello scarto, sottolineata spesso nei suoi discorsi. Padre Arrupe era un uomo di preghiera, un uomo che “lottava con Dio ogni giorno”, sottolinea. Per lui proclamare la fede e promuovere la giustizia erano due sfide radicalmente unite in modo tale che quello che era stato fino a quel momento un incarico per alcuni gesuiti doveva convertirsi in una preoccupazione di tutti.
Secondo sant’Ignazio un’ancella, una giovane che serve, assiste la Sacra Famiglia. Per questo il fondatore dei gesuiti esortava a farsi piccoli piccoli e servirli, anche noi, nelle loro necessità. “Questa contemplazione attiva di Dio escluso ci aiuta a scoprire la bellezza di ogni persona emarginata”, evidenzia il Papa che ricorda: “Nei poveri avete trovato un luogo privilegiato di incontro con Cristo” e questo è un “dono prezioso” nella vita del credente. “L’incontro con Cristo tra i suoi prediletti è espressione della nostra fede”, rimarca ancora Papa Francesco. Questa esperienza con gli ultimi della Compagnia ha infatti rafforzato la sua fede, rendendola più compassionevole e più evangelica. In questo modo si è vissuta una trasformazione personale e corporativa, una conversione.
Da qui, l’invito a non smettere di offrire questa familiarità con i più vulnerabili. “Il nostro mondo spezzato e diviso ha bisogno di costruire ponti affinché l’incontro umano permetta a ciascuno di noi di scoprire negli ultimi il bel volto del fratello” la cui presenza richiama la nostra solidarietà. Il Papa conclude il suo intenso discorso con un’immagine: il testamento di Arrupe, là in Tailandia, nel campo dei rifugiati, con gli scartati. “Vi chiedo una cosa: non lasciate la preghiera”, dice ricordando che “fu il suo testamento. Lasciò la Tailandia quel giorno e durante il volo ebbe un ictus. Che questo santino, che questa immagine – auspica – vi accompagni sempre”.
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