E’ stato un dialogo che è durato circa un’ora, in un clima di grande familiarità, con battute di spirito e risate di cuore: è stata la conversazione del Papa con i sacerdoti di Caserta. L’incontro si è svolto presso la Reggia, nella Cappella Palatina.
Come spesso accade in questi incontri, Papa Francesco ha messo da parte il discorso scritto e ha risposto alle domande dei sacerdoti. Gli è stato chiesto quale sia l’identikit del prete del Terzo millennio. Una prima cosa – ha detto – è la creatività: “Se noi vogliamo essere creativi nello Spirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù – non c’è altra strada che la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività”.
“Non la creatività un po’ alla sans façon e rivoluzionaria – ha spiegato – perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no questa non è dello Spirito. Ma quando la creatività viene dallo Spirito e nasce nella preghiera, ti può portare problemi”, come è accaduto per esempio al Beato Rosmini: “ha scritto Le cinque piaghe della Chiesa, è stato proprio un critico creativo, perché pregava. Ha scritto ciò che lo Spirito gli ha fatto sentire, per questo è andato nel carcere spirituale, cioè a casa sua: non poteva parlare, non poteva insegnare, non poteva scrivere, i suoi libri erano all’indice. Oggi è Beato! Tante volte la creatività ti porta alla croce”.
La preghiera apre a Dio e al prossimo: “Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere”. Occorre uscire da sé per essere vicini agli altri, senza spaventarsi di niente. “L’uomo di Dio non si spaventa”. E la vicinanza – ha osservato – significa dialogo. “Il dialogo è tanto importante, ma per dialogare sono necessarie due cose: la propria identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri”: “Se io non sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria identità, e l’empatia, cioè non condannare a priori. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa di proprio da donarci; ogni uomo, ogni donna, ha la propria storia, la propria situazione e dobbiamo ascoltarla. Poi la prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi”.
“Non avere paura di dialogare con nessuno”, ha esortato il Papa, e senza l’intenzione di “fare proselitismo” perché “il proselitismo è una trappola”. Ha quindi citato Benedetto XVI: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione”.
Ha poi affermato che il sacerdote diocesano deve essere “un contemplativo”, anche se in modo diverso da come è un monaco: “Il sacerdote deve avere una contemplatività, una capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. E’ un uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani davanti agli uomini”.
Fondamentale è poi il rapporto del sacerdote con il suo vescovo e con gli altri sacerdoti del presbiterio. “Non c’è spiritualità del prete diocesano senza questi due rapporti”. Certamente – ha sottolineato – non è sempre facile andare d’accordo con il Vescovo, ma l’importante è avere uno “spirito di libertà. Bisogna avere il coraggio di dire ‘Io non la penso così, la penso diversamente’, e anche l’umiltà di accettare una correzione”. E “il nemico più grande di questi due rapporti” – ha ricordato – sono “le chiacchiere”. Il Papa esorta a dirsi le cose apertamente: “Ma, tu sei un uomo, quindi se hai qualcosa contro il vescovo vai e gliela dici. Ma poi ci saranno conseguenze non buone. Porterai la croce, ma sii uomo! Se tu sei un uomo maturo e vedi qualcosa in tuo fratello sacerdote che non ti piace o che credi sia sbagliata, vai a dirglielo in faccia, oppure se vedi che quello non tollera di essere corretto, vai a dirlo al vescovo o all’amico più intimo di quel sacerdote, affinché possa aiutarlo a correggersi. Ma non dirlo agli altri: perché ciò è sporcarsi l’un l’altro. E il diavolo è felice con quel ‘banchetto’, perché così attacca proprio il centro della spiritualità del clero diocesano. Per me le chiacchiere fanno tanto danno”.
La gioia è il segno che i rapporti con il vescovo e con gli altri sacerdoti sono buoni. Invece, a volte – ha detto – c’è “una Chiesa di arrabbiati” e questo “porta la tristezza e l’amarezza”: “Quando troviamo in una Diocesi un sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati. Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del Signore e porta alla tristezza e alla disunione”.
Il Papa ha parlato anche dell’unità tra i vescovi: “è brutto” – ha detto – quando “fanno cordate”. “Noi vescovi – ha precisato – dobbiamo dare l’esempio dell’unità che Gesù ha chiesto al Padre per la Chiesa”. Ma l’unità non significa uniformità: “Ognuno ha il suo carisma, ognuno ha il suo modo di pensare, di vedere le cose: questa varietà a volte è frutto di sbagli, ma tante volte è frutto dello stesso Spirito. Lo Spirito Santo ha voluto che nella Chiesa ci fosse questa varietà di carismi. Lo stesso Spirito che fa la diversità, poi è riuscito a fare l’unità; un’unità nella diversità di ognuno, senza che nessuno perda la propria personalità”.
Ad una domanda sulla pietà popolare, ha ricordato che – per quanto alcune volte debba essere evangelizzata – “è una forza enorme”. Nei Santuari – ha detto – “si vedono miracoli”
“I confessionali dei Santuari sono un posto di rinnovamento per noi preti e Vescovi; sono un corso di aggiornamento spirituale, a motivo del contatto con la pietà popolare. E i fedeli quando vengono a confessarsi ti dicono le loro miserie, ma tu vedi dietro a quelle miserie la grazia di Dio che li conduce a questo momento. Questo contatto con il popolo di Dio che prega, che è pellegrino, che manifesta la sua fede in questa forma di pietà, ci aiuta tanto nella nostra vita sacerdotale”.
“La religiosità popolare – ha aggiunto – è uno strumento di evangelizzazione”. E a questo proposito ha ricordato la sua esperienza a Buenos Aires: i movimenti giovanili non funzionavano, perché si facevano riunioni per parlare, “e alla fine i giovani si annoiavano”: “Ma quando i parroci hanno trovato la strada per coinvolgere i giovani nelle piccole missioni, fare la missione nelle vacanze, la catechesi ai popoli che ne hanno bisogno, nei paesini che non hanno prete, allora essi aderivano. I giovani davvero vogliono questo protagonismo missionario e imparano da qui a vivere una forma di pietà che si può anche dire pietà popolare: l’apostolato missionario dei giovani ha qualcosa della pietà popolare. La pietà popolare è attiva, è un senso di fede – dice Paolo VI – profondo, che soltanto i semplici e gli umili sono capaci di avere. E questo è grande!”.
Il Papa ha quindi concluso: “Vi ringrazio, davvero, e vi chiedo di pregare per me, perché anch’io ho le difficoltà di ogni Vescovo e devo anche riprendere ogni giorno il cammino della conversione. La preghiera uno per l’altro ci farà bene per andare avanti. Grazie della pazienza”. di Sergio Centofanti perla Radio Vaticana
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