Nel Santuario dedicato al martire thailandese Nicolás Bunkerd Kitbamrung, Papa Francesco invita i vescovi locali e della FABC (la Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche) ad avere lo “sguardo e il fiuto” degli evangelizzatori, ispirati non da piani e strategie ma dall’azione dello Spirito
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Siete una piccola Chiesa eppure non vi siete lasciati “contaminare dal complesso di inferiorità o dal lamento di non sentirsi riconosciuti”. L’esclamazione di Francesco arriva a metà discorso ed è un atto di ammirazione per una comunità cattolica che non ha la forza dei numeri ma la fede dei piccoli e soprattutto memoria delle “radici”, che nascono dal martirio. Davanti a sé il Papa ha la platea dei vescovi thailandesi e del resto dell’Asia e dunque la possibilità di riflettere sul senso della missione dal punto di vista di un pastore dopo aver fatto altrettanto, poco prima, con clero, religiosi, seminaristi.
L’incontro con i vescovi si svolge a poche decine di metri da quello precedente, nel Santuario dedicato alla memoria del Beato Nicolás Bunkerd Kitbamrung, un sacerdote di Bangkok, ucciso nel ’44 da una tubercolosi contratta nel carcere dove – in piena guerra franco-indocinese – era stato rinchiuso con l’accusa infamante di essere una spia, in realtà perché un sacerdote cattolico dai tratti thailandesi era per tanti inaccettabile. Con lui Francesco ricorda ai vescovi la memoria dei primi missionari che, dice, “ci hanno preceduto con coraggio, con gioia e con una resistenza straordinaria” e che con la loro tempra sono uno specchio per gli evangelizzatori di oggi.
Non hanno cercato un terreno con garanzie di successo; al contrario, la loro “garanzia” consisteva nella certezza che nessuna persona e cultura fosse a priori incapace di ricevere il seme di vita, di felicità e specialmente dell’amicizia che il Signore desidera donarle. Non hanno aspettato che una cultura fosse affine o si sintonizzasse facilmente con il Vangelo; al contrario, si sono tuffati in quelle realtà nuove convinti della bellezza di cui erano portatori. Ogni vita vale agli occhi del Maestro.
Ad ascoltare il Papa con i vescovi thailandesi ci sono anche quelli in rappresentanza della FABC, l’organismo federativo delle Conferenze episcopali asiatiche che il prossimo anno vivrà l’assemblea generale nel 50.mo di fondazione. Questa, osserva Francesco, sarà “una buona occasione per tornare a visitare quei ‘santuari’ dove si custodiscono le radici missionarie che hanno segnato queste terre”. Terre di “grande bellezza” e molte “povertà”, che il Papa elenca ancora una volta – sfruttamento, traffico di persone, droga, flussi di migranti da gestire. Tutte preoccupazioni pastorali che più che di strategie hanno bisogno, afferma, di essere in sintonia con lo Spirito Santo.
Mi piace evidenziare che la missione, prima che attività da realizzare o progetti da porre in atto, richiede uno sguardo e un “fiuto” da educare; richiede una preoccupazione paterna e materna, perché la pecora si perde quando il pastore la dà per persa, mai prima.
E qui il Papa fa una pausa per ricordare un episodio di qualche mese fa, quando un missionario francese, da 40 anni nel nord della Thailandia, è andato a trovarlo in Vaticano con un gruppo di una trentina di persone, padri e madri di famiglia, età media sui 25 anni:
Lui stesso li aveva battezzati, la prima generazione, e ora battezzava i loro figli. Uno potrebbe pensare: hai perso la vita per 50, per 100 persone, hai seminato quei semi… e Dio lo consola facendogli battezzare i figli di quelli che aveva battezzato per primi. Semplicemente, indigeni del Nord della Thailandia… ma lui l’ha vissuta come una ricchezza per l’evangelizzazione. Quindi, non ha dato per persa quella pecora, ma anzi l’ha integrata.
“ Vivere lo stupore dell’avventura missionaria, senza la necessità consapevole o inconsapevole di voler apparire anzitutto lei stessa, occupando o pretendendo chissà quale posto di preminenza ”
Uno dei “punti più belli dell’evangelizzazione – considera Francesco – è renderci conto che la missione affidata alla Chiesa non consiste solo nella proclamazione del Vangelo, ma anche nell’imparare a credere al Vangelo e a lasciarsi trasformare da esso”. Una Chiesa, prosegue citando Paolo VI, “comunità di speranza” che si trasforma in “testimone per vocazione”.
Una Chiesa in cammino, senza paura di scendere in strada e confrontarsi con la vita delle persone che le sono state affidate, è capace di aprirsi umilmente al Signore e con il Signore vivere lo stupore dell’avventura missionaria, senza la necessità consapevole o inconsapevole di voler apparire anzitutto lei stessa, occupando o pretendendo chissà quale posto di preminenza.
Francesco passa a tracciare il ritratto del pastore, “una persona che, innanzitutto, ama visceralmente il suo popolo, conosce le sue intolleranze, le sue fragilità”. Pastori chiamati ad amare i propri sacerdoti “non come giudici ma come padri” e allo stesso tempo staccati da quelle “strutture e mentalità ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore”. Inoltre, conclude Francesco, la missione non è affare che riguardi solo clero e consacrati:
Non perdiamo di vista il fatto che molte delle vostre terre sono state evangelizzate da laici. Essi hanno avuto la possibilità di parlare il dialetto della gente, esercizio semplice e diretto di inculturazione non teorica né ideologica, ma frutto della passione del condividere Cristo. Il santo Popolo fedele di Dio possiede l’unzione del Santo che siamo chiamati a riconoscere, apprezzare e diffondere. Non perdiamo questa grazia di vedere Dio che agisce in mezzo al suo popolo: come lo ha fatto prima, lo fa ancora e continuerà a farlo.
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