Francesco davanti al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede cita gli attentati di Parigi, parla dei «risvolti agghiaccianti» nei conflitti in Siria e Iraq e chiede ai leader musulmani di condannare «qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione». E critica la cultura individualista che «scarta» la famiglia
IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO
Eccellenze, Signore e Signori,
Vi ringrazio per la Vostra presenza a questo tradizionale incontro che all’inizio di ogni nuovo anno mi consente di rivolgere a Voi, alle Vostre famiglie e ai popoli che rappresentate un cordiale saluto e l’augurio di ogni bene. Particolare riconoscenza desidero esprimere al Decano, Sua Eccellenza il Signor Jean-Claude Michel, per le gentili parole che mi ha indirizzato a nome di tutti, come pure a ciascuno di Voi per il costante impegno che profondete nel favorire e incrementare, in spirito di reciproca collaborazione, le relazioni fra i Vostri Paesi e le Organizzazioni internazionali che rappresentate e la Santa Sede. Anche nel corso dell’ultimo anno, tali rapporti hanno potuto consolidarsi, sia per l’accresciuta presenza di Ambasciatori residenti a Roma, sia attraverso la firma di nuovi Accordi bilaterali di carattere generale, quale quello siglato nel gennaio scorso con il Camerun, e di intese specifiche, come quelle sottoscritte con Malta e con la Serbia.
Quest’oggi desidero far risuonare con forza una parola a noi molto cara: pace! Essa ci giunge dalla voce delle schiere angeliche, che la annunciano nella notte di Natale (cfr Lc 2,14) quale prezioso dono di Dio e, nello stesso tempo, ce la indicano come responsabilità personale e sociale che ci deve trovare solleciti e operosi. Ma, accanto alla pace, il presepe racconta anche un’altra drammatica realtà: quella del rifiuto. In alcune raffigurazioni iconografiche, tanto dell’Occidente quanto dell’Oriente – penso ad esempio alla splendida icona della Natività di Andrej Rublëv – il Bambino Gesù non appare adagiato in una culla, bensì deposto in un sepolcro. L’immagine, che intende collegare le due principali feste cristiane – il Natale e la Pasqua –, mostra che accanto all’accoglienza gioiosa per la nuova nascita, vi è tutto il dramma di cui Gesù è oggetto, disprezzato e reietto fino alla morte in Croce.
Gli stessi racconti della Natività ci mostrano il cuore indurito dell’umanità, che fatica ad accogliere il Bambino. Fin da subito anche Lui viene scartato, lasciato fuori al freddo, costretto a nascere in una stalla poiché non c’era posto nell’alloggio (cfr Lc 2,7). E se così è stato trattato il Figlio di Dio, quanto più lo sono tanti nostri fratelli e sorelle! C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come ad un fratello da accogliere, ma a lasciarlo fuori dal nostro personale orizzonte di vita, a trasformarlo piuttosto in un concorrente, in un suddito da dominare. Si tratta di una mentalità che genera quella cultura dello scarto che non risparmia niente e nessuno: dalle creature, agli esseri umani e perfino a Dio stesso. Da essa nasce un’umanità ferita e continuamente lacerata da tensioni e conflitti di ogni sorta.
Nei racconti evangelici dell’infanzia ne è emblema il re Erode, che sentendo minacciata la propria autorità dal Bambino Gesù fa uccidere tutti gli infanti di Betlemme. Il pensiero corre subito al Pakistan, dove un mese fa oltre cento bambini sono stati trucidati con inaudita ferocia. Alle loro famiglie desidero rinnovare il mio personale cordoglio e l’assicurazione della mia preghiera per i tanti innocenti che hanno perso la vita.
A una dimensione personale del rifiuto, si associa così inevitabilmente una dimensione sociale, una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte. Ne abbiamo una triste eco in numerosi fatti della cronaca quotidiana, non ultima la tragica strage avvenuta a Parigi alcuni giorni fa. Gli altri «non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti» (Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace
Constatiamo con dolore le conseguenze drammatiche di questa mentalità del rifiuto e della «cultura dell’asservimento» (ibid., 2) nel continuo dilagare dei conflitti. Come una vera e propria guerra mondiale combattuta a pezzi, essi toccano, seppure con forme e intensità diverse, varie zone del pianeta, a partire dalla vicina Ucraina, divenuta drammatico teatro di scontro e per la quale auspico che, attraverso il dialogo, si consolidino gli sforzi in atto per fare cessare le ostilità, e le parti coinvolte intraprendano quanto prima, in un rinnovato spirito di rispetto della legalità internazionale, un sincero cammino di fiducia reciproca e di riconciliazione fraterna che permetta di superare l’attuale crisi.
Il mio pensiero va soprattutto al Medio Oriente, a partire dall’amata terra di Gesù, che ho avuto la gioia di visitare nel maggio scorso e per la quale non ci stancheremo mai di invocare la pace. Lo abbiamo fatto, con straordinaria intensità, insieme all’allora Presidente israeliano, Shimon Peres, e al Presidente palestinese, Mahmud Abbas, animati dalla fiduciosa speranza che possa riprendere il negoziato fra le due Parti, inteso a far cessare le violenze e a giungere ad una soluzione che permetta tanto al popolo palestinese che a quello israeliano di vivere finalmente in pace, entro confini chiaramente stabiliti e riconosciuti internazionalmente, così che “la soluzione di due Stati” diventi effettiva.
Il Medio Oriente è purtroppo attraversato anche da altri conflitti, che si protraggono ormai da troppo tempo e i cui risvolti sono agghiaccianti anche per il dilagare del terrorismo di matrice fondamentalista in Siria ed in Iraq. Tale fenomeno è conseguenza della cultura dello scarto applicata a Dio. Il fondamentalismo religioso, infatti, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico. Di fronte a tale ingiusta aggressione, che colpisce anche i cristiani e altri gruppi etnici e religiosi della Regione, gli Yazidi per esempio, occorre una risposta unanime che, nel quadro del diritto internazionale, fermi il dilagare delle violenze, ristabilisca la concordia e risani le profonde ferite che il succedersi dei conflitti ha provocato. In questa sede faccio perciò appello all’intera comunità internazionale, così come ai singoli Governi interessati, perché assumano iniziative concrete per la pace e in difesa di quanti soffrono le conseguenze della guerra e della persecuzione e sono costretti a lasciare le proprie case e la loro patria. Con una lettera inviata poco prima di Natale, ho personalmente inteso manifestare la mia vicinanza e assicurare la mia preghiera a tutte le comunità cristiane del Medio Oriente, che offrono una preziosa testimonianza di fede e di coraggio, svolgendo un ruolo fondamentale come artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo nelle rispettive società civili di appartenenza. Un Medio Oriente senza cristiani sarebbe un Medio Oriente sfigurato e mutilato! Nel sollecitare la comunità internazionale a non essere indifferente davanti a tale situazione, auspico che i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza.
Simili forme di brutalità, che non di rado mietono vittime fra i più piccoli e gli indifesi, non mancano purtroppo neanche in altre parti del mondo. Penso in modo particolare alla Nigeria, dove non cessano le violenze che colpiscono indiscriminatamente la popolazione, ed è in continua crescita il tragico fenomeno dei sequestri di persone, sovente di giovani ragazze rapite per essere fatte oggetto di mercimonio. È un esecrabile commercio che non può continuare! Una piaga che occorre sradicare poiché colpisce tutti noi dalle singole famiglie all’intera comunità mondiale (cfr Discorso ai nuovi Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, 12 dicembre 2013).
Guardo poi con apprensione ai non pochi conflitti di carattere civile che interessano altre parti dell’Africa, a partire dalla Libia, lacerata da una lunga guerra intestina che causa indicibili sofferenze tra la popolazione e ha gravi ripercussioni sui delicati equilibri della Regione. Penso alla drammatica situazione nella Repubblica Centroafricana, nella quale duole constatare come la buona volontà che ha animato gli sforzi di coloro che vogliono costruire un futuro di pace, sicurezza e prosperità, incontri forme di resistenza ed egoistici interessi di parte che rischiano di vanificare le attese di un popolo tanto provato che anela a costruire liberamente il proprio futuro. Particolare preoccupazione desta anche la situazione in Sud Sudan e in alcune regioni del Sudan, del Corno d’Africa e della Repubblica Democratica del Congo, dove non cessa di crescere il numero di vittime tra la popolazione civile e migliaia di persone, tra cui molte donne e bambini, sono costrette a fuggire e a vivere in condizioni di estremo disagio. Auspico pertanto un impegno comune dei singoli governi e della comunità internazionale affinché si ponga fine ad ogni sorta di lotta, di odio e di violenza e ci si impegni in favore della riconciliazione, della pace e della difesa della dignità trascendente della persona.
Non bisogna poi dimenticare che le guerre portano con sé un altro orrendo crimine che è lo stupro. È una gravissima offesa alla dignità della donna, che non solo viene violata nell’intimità del suo corpo, ma pure nella sua anima, con un trauma che difficilmente potrà essere cancellato e le cui conseguenze sono anche di carattere sociale. Purtroppo, si verifica che anche laddove non c’è guerra troppe donne ancor oggi soffrono violenza nei loro confronti.
Tutti i conflitti bellici rivelano il volto più emblematico della cultura dello scarto, a causa delle vite che deliberatamente vengono calpestate da parte di chi detiene la forza. Vi sono però forme più sottili e subdole di rifiuto, che egualmente alimentano tale cultura. Penso anzitutto al modo con cui vengono spesso trattati i malati, isolati ed emarginati come i lebbrosi di cui parla il Vangelo. Tra i lebbrosi del nostro tempo vi sono le vittime di questa nuova e tremenda epidemia di Ebola, che, specialmente in Liberia, Sierra Leone e Guinea, ha già falcidiato oltre seimila vite. Desidero oggi pubblicamente elogiare e ringraziare quegli operatori sanitari che, insieme a religiosi e volontari, prestano ogni possibile cura ai malati e ai loro familiari, soprattutto ai bambini rimasti orfani. In pari tempo, rinnovo il mio appello a tutta la comunità internazionale perché venga assicurata un’adeguata assistenza umanitaria ai pazienti e vi sia un impegno comune per debellare il morbo.
Accanto alle vite scartate a causa delle guerre o delle malattie, vi sono quelle di numerosi profughi e rifugiati. Ancora una volta i risvolti si comprendono attingendo all’infanzia di Gesù, che testimonia un’altra forma della cultura dello scarto che danneggia i rapporti e “scioglie” la società. Infatti, di fronte alla brutalità di Erode, la Santa Famiglia è costretta a fuggire in Egitto, da dove potrà ritornare solo alcuni anni dopo (cfr Mt 2,13-15). La conseguenza delle situazioni di conflitto poc’anzi descritte è spesso la fuga di migliaia di persone dalla propria terra d’origine. A volte non si va tanto in cerca di un futuro migliore, ma semplicemente di un futuro, poiché rimanere nella propria patria può significare una morte certa. Quante persone perdono la vita in viaggi disumani, sottoposte alle angherie di veri e propri aguzzini avidi di denaro? Ne ho fatto cenno nel corso della mia recente visita al Parlamento Europeo, ricordando che «non si può tollerare che il Mare Mediterraneo divenga un grande cimitero» (Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014). Vi è poi un altro dato allarmante: molti migranti, soprattutto nelle Americhe, sono bambini soli, più facile preda dei pericoli, necessitando di maggiore cura, attenzione e protezione.
Giunti spesso senza documenti in terre sconosciute di cui non parlano la lingua, è difficile per i migranti venire accolti e trovare lavoro. Oltre alle incertezze della fuga, essi sono costretti ad affrontare anche il dramma del rifiuto. È dunque necessario un cambio di atteggiamento nei loro confronti, per passare dal disinteresse e dalla paura ad una sincera accettazione dell’altro. Ciò naturalmente richiede di «mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini (…) e garantire l’accoglienza dei migranti» (ibid.). Nel ringraziare quanti, anche al costo della vita, si adoperano per portare soccorso ai rifugiati e ai migranti, esorto tanto gli Stati quanto le Organizzazioni internazionali ad agire con impegno per risolvere tali gravi situazioni umanitarie e a fornire ai Paesi di origine dei migranti aiuti per favorirne lo sviluppo socio-politico e il superamento dei conflitti interni, che sono la causa principale di tale fenomeno. «È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti» (ibid.). Peraltro, ciò consentirà ai migranti di tornare un giorno nella propria patria e contribuire alla sua crescita e al suo sviluppo.
Ma accanto ai migranti, ai profughi e ai rifugiati, vi sono tanti altri «esiliati nascosti» (Angelus, 29 dicembre 2013), che vivono all’interno delle nostre case e delle nostre famiglie. Penso soprattutto agli anziani e ai diversamente abili, come pure ai giovani. I primi sono oggetto di rifiuto quando vengono ritenuti un peso e «presenze ingombranti» (ibid.), mentre gli ultimi sono scartati negando loro concrete prospettive lavorative per costruirsi il proprio avvenire. D’altra parte non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro (cfr Discorso ai partecipanti all’incontro mondiale dei Movimenti Popolari, 28 ottobre 2014), e che rende il lavoro una forma di schiavitù. È quanto ho inteso richiamare nel corso di un recente incontro con i movimenti popolari, che si adoperano con dedizione per ricercare soluzioni adeguate ad alcuni problemi del nostro tempo, quali la piaga sempre più estesa della disoccupazione giovanile e del lavoro nero, e il dramma di tanti lavoratori, specialmente bambini, sfruttati per avidità. Tutto ciò è contrario alla dignità umana e deriva da una mentalità che pone al centro il denaro, i benefici e i profitti economici a scapito dell’uomo stesso.
Tra le cause di tali fenomeni vi è una globalizzazione uniformante che scarta le culture stesse, recidendo così i fattori propri dell’identità di ciascun popolo che costituiscono l’imprescindibile eredità alla base di un sano sviluppo sociale. In un mondo uniformato e privo d’identità è facile cogliere il dramma e lo scoraggiamento di molte persone, che hanno letteralmente perso il senso del vivere. Tale dramma è aggravato dalla perdurante crisi economica, che genera sfiducia e favorisce la conflittualità sociale. Ne ho potuto notare i risvolti anche qui a Roma, incontrando tante persone che vivono situazioni di disagio, come pure nel corso dei diversi viaggi che ho compiuto in Italia.
Proprio alla cara Nazione italiana desidero rivolgere un pensiero carico di speranza perché nel perdurante clima di incertezza sociale, politica ed economica il popolo italiano non ceda al disimpegno e alla tentazione dello scontro, ma riscopra quei valori di attenzione reciproca e solidarietà che sono alla base della sua cultura e della convivenza civile, e sono sorgenti di fiducia tanto nel prossimo quanto nel futuro, specie per i giovani.
Pensando alla gioventù, desidero menzionare il mio viaggio in Corea, dove nell’agosto scorso ho potuto incontrare migliaia di giovani convenuti per la VI Giornata della Gioventù Asiatica e dove ho ricordato che occorre valorizzare i giovani, «cercando di trasmettere loro l’eredità del passato e di applicarla alle sfide del tempo presente» (Incontro con le Autorità, Seoul, 14 agosto 2014). È necessario perciò riflettere «sull’adeguatezza del modo di trasmettere i nostri valori alle future generazioni e su quale tipo di società ci stiamo preparando a consegnare loro» (ibid.).
Questa sera stessa avrò la gioia di ripartire per l’Asia, per visitare lo Sri Lanka e le Filippine e così testimoniare l’attenzione e la sollecitudine pastorale con cui seguo le vicende dei popoli di quel vasto continente. A loro e ai loro Governi desidero manifestare, ancora una volta, l’anelito della Santa Sede ad offrire il proprio contributo di servizio al bene comune, all’armonia e alla concordia sociale. In particolare, auspico una ripresa del dialogo fra le due Coree, che sono Paesi fratelli che parlano la stessa lingua.
Eccellenze, Signore e Signori,
All’inizio di un nuovo anno non vogliamo però che il nostro sguardo sia dominato dal pessimismo, dai difetti e dalle mancanze di questo nostro tempo. Vogliamo anche ringraziare Dio per ciò che ci ha donato, per i benefici che ci ha elargito, per i dialoghi e gli incontri che ci ha concesso e per alcuni frutti di pace che ci ha dato la gioia di assaporare.
Una eloquente testimonianza che la cultura dell’incontro è possibile, l’ho sperimentata nel corso della mia visita in Albania, una Nazione piena di giovani, che sono speranza per il futuro. Nonostante le ferite sofferte nella storia recente, il Paese è caratterizzato dalla «pacifica convivenza e collaborazione tra gli appartenenti a diverse religioni» (Discorso alle Autorità, Tirana, 21 settembre 2014) in un clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani. È un segno importante che una fede in Dio sincera apre all’altro, genera dialogo e opera per il bene, mentre la violenza nasce sempre da una mistificazione della religione stessa, assunta a pretesto di progetti ideologici che hanno come unico scopo il dominio dell’uomo sull’uomo. Parimenti, nel recente viaggio in Turchia, storico ponte fra Oriente e Occidente, ho potuto constatare i frutti del dialogo ecumenico e interreligioso, nonché l’impegno verso i profughi provenienti dagli altri Paesi del Medio Oriente. Ho ritrovato tale spirito di accoglienza anche in Giordania, che ho visitato all’inizio del mio pellegrinaggio in Terra Santa, come pure attraverso le testimonianze giunte dal Libano, al quale auspico di superare le attuali difficoltà politiche.
Un esempio a me molto caro di come il dialogo possa davvero edificare e costruire ponti viene dalla recente decisione degli Stati Uniti d’America e di Cuba di porre fine ad un silenzio reciproco durato oltre mezzo secolo e di riavvicinarsi per il bene dei rispettivi cittadini. In tale prospettiva rivolgo un pensiero anche al popolo del Burkina Faso, impegnato in un periodo di importanti trasformazioni politiche ed istituzionali, affinché un rinnovato spirito di collaborazione possa contribuire allo sviluppo di una società più giusta e fraterna. Rilevo, inoltre, con compiacimento la firma nel marzo scorso dell’Accordo che pone fine a lunghi anni di tensioni nelle Filippine.
Parimenti incoraggio l’impegno in favore di una pace stabile in Colombia, come pure le iniziative volte a ristabilire la concordia nella vita politica e sociale in Venezuela. Auspico anche che si possa presto pervenire ad un’intesa definitiva tra l’Iran e il cosiddetto Gruppo 5+1 circa l’utilizzo dell’energia nucleare per scopi pacifici, apprezzando gli sforzi finora compiuti. Accolgo, poi, con soddisfazione la volontà degli Stati Uniti di chiudere definitivamente il carcere di Guantánamo, rilevando la generosa disponibilità di alcuni Paesi ad accogliere i detenuti. A questi paesi, ringrazio di cuore. Infine, desidero esprimere il mio apprezzamento ed incoraggiamento per quei Paesi che si stanno attivamente impegnando per favorire lo sviluppo umano, la stabilità politica e la convivenza civile tra i loro cittadini.
Eccellenze, Signore e Signori,
Il 6 agosto 1945, l’umanità assisteva ad una delle più tremende catastrofi della propria storia. Per la prima volta, in un modo nuovo e senza precedenti, il mondo sperimentava fino a che punto poteva giungere il potere distruttivo dell’uomo. Dalle ceneri di quell’immane tragedia che è stata la seconda guerra mondiale è sorta tra le Nazioni una volontà nuova di dialogo e di incontro che ha dato vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui quest’anno celebreremo il 70° anniversario. Nella visita compiuta al Palazzo di Vetro cinquant’anni fa, il mio Beato Predecessore, Papa Paolo VI, ricordava che «il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità» (PAOLO VI, Discorso alle Nazioni Unite, New York, 4 ottobre 1965).
È anche la mia fiduciosa invocazione per questo nuovo anno, che peraltro vedrà il prosieguo di due importanti processi: la redazione dell’Agenda di Sviluppo post-2015, con l’adozione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, e l’elaborazione di un nuovo Accordo sul clima, urgente questo. Il loro presupposto indispensabile è la pace, la quale, prima ancora che dalla fine di ogni guerra, sgorga dalla conversione del cuore.
Con questi sentimenti, rinnovo a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie e ai Vostri popoli, l’augurio di un 2015 di speranza e di pace.
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