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Giada Aquilino – Città del Vaticano
Anche nei momenti “difficili”, quando camminiamo “su sentieri lontani da Dio”, “abbandonati dal mondo”, “paralizzati da un senso di colpa” troviamo la forza di pregare “ricominciando” dalla parola “Abbà, Padre”, “con il senso tenero di un bambino”, che dice: “Abbà, papà”. Questa l’esortazione di Francesco all’udienza generale in Aula Paolo VI
Riflettendo sulla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, il Pontefice prosegue le catechesi sul “Padre nostro” e assicura che, pregando il Signore, Dio “non ci nasconderà il suo volto”, né “si chiuderà nel silenzio”, perché “mai ci ha persi di vista”, è rimasto sempre “fedele al suo amore per noi”: ci cerca, ci ama, scorgendo in noi “una bellezza”, anche se pensiamo di aver “sperperato inutilmente” tutti i nostri talenti.
Dio è non solo un padre, è come una madre che non smette mai di amare la sua creatura. D’altra parte, c’è una “gestazione” che dura per sempre, ben oltre i nove mesi di quella fisica; è una gestazione che genera un circuito infinito d’amore. Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino.
Dio, infatti, non nasconderà il “proprio volto”, nemmeno di fronte alle nostre “amarezze”:
Lui non si chiuderà nel silenzio. Tu digli “Padre” e Lui ti risponderà. Tu hai un padre. “Sì, ma io sono un delinquente…”. Ma hai un padre che ti ama! Digli “Padre”, incomincia a pregare così, e nel silenzio ci dirà che mai ci ha persi di vista. “Ma, Padre, io ho fatto questo…” – “Mai ti ho perso di vista, ho visto tutto. Ma sono rimasto sempre lì, vicino a te, fedele al mio amore per te”. Quella sarà la risposta. Non dimenticatevi mai di dire “Padre”.
Nel Nuovo Testamento, aggiunge, la preghiera sembra voler “arrivare all’essenziale”, fino a concentrarsi proprio sulla parola: “Abbà, Padre”. San Paolo, dice Francesco, “conserva” la parola aramaica nell’invocazione a Dio, che è la “novità del Vangelo”.
Dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”. L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata intatta nella sua forma originaria: “Abbà”.
Dobbiamo immaginare – spiega – che nelle parole aramaiche sia rimasta come “registrata” la voce di Gesù. Nella prima parola del “Padre nostro”, riflette il Pontefice, troviamo subito la radicale novità della preghiera cristiana. Non si tratta solo di usare un simbolo, la figura del padre, “da legare al mistero di Dio”, bensì di avere “tutto il mondo di Gesù travasato nel proprio cuore”. Dire “Abbà” – prosegue il Papa – è qualcosa di molto “più intimo, più commovente” che semplicemente chiamare Dio “Padre”.
Ecco perché qualcuno ha proposto di tradurre questa parola aramaica originaria “Abbà” con “Papà” o “Babbo”. Invece di dire “Padre nostro”, dire “Papà, Babbo”. Noi continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”, ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà, che dice “papà” e dice “babbo”.
Tali espressioni evocano “affetto”, “calore”, “qualcosa – richiama Francesco – che ci proietta nel contesto dell’età infantile”: l’immagine di un bambino “completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui”.
Per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Non un cuore sufficiente: così non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo.
Il “Padre nostro”, prosegue il Papa, prende “senso e colore” se impariamo a pregarlo dopo aver letto la parabola del padre misericordioso, come la riporta l’evangelista Luca parlando del figlio prodigo, abbracciato dal padre “che lo aveva atteso a lungo”, “che non ricorda le parole offensive” rivoltegli ma fa capire “semplicemente quanto gli sia mancato”. Quelle parole, nota Francesco, “prendono vita, prendono forza”.
Ci chiediamo: è mai possibile che Tu, o Dio, conosca solo l’amore? Tu non conosci l’odio? No – risponderebbe Dio – io conosco solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: io conosco solo amore. Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre. Sono soprattutto le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più niente.
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Nei saluti finali nelle varie lingue, il pensiero di Francesco va alla Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che comincia questo venerdì, nella quale il Papa auspica che si intensifichino “le nostre suppliche e penitenze, affinché si affretti l’ora in cui trovi pieno compimento l’anelito di Gesù: ‘Abbá…, ut unum sint – perché tutti siano una sola cosa’”. Rivolgendosi ai pellegrini polacchi, ricorda il gruppo del Santuario di San Stanislao – patrono della Polonia, nato a Szczepanów, nei pressi di Cracovia, il 26 luglio 1030 – che celebra l’anniversario della visita che San Giovanni Paolo II fece in quei luoghi poco prima della sua elezione alla Sede di Pietro.
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