All’udienza generale il Papa ha invitato i fedeli a seguire con la preghiera il suo incontro con il Patriarca di Mosca Kirill all’Avana e il suo viaggio apostolico in Messico.“Dopodomani inizierò il viaggio apostolico in Messico, ma prima mi recherò all’Avana per incontrare il mio caro fratello Cirillo. Affido alle preghiere di tutti voi sia l’incontro con il Patriarca Cirillo sia il viaggio in Messico”.
In Messico, intanto, fervono i preparativi per l’arrivo del Papa. Nel Paese c’è una religiosità popolare, profondamente radicata. Una delle tappe fondamentali di questo viaggio sarà la Messa del Papa nella Basilica di Guadalupe. Alessandro Guarasci per RadioVaticana ha intervistato don Armando Flores Navarro, rettore del Collegio Messicano a Roma:
R. – La religiosità del popolo messicano risale alle culture originarie, che secondo quanto ci dicono gli storici e gli antropologi, erano culture con un vivo senso della trascendenza. Di questa religiosità si sono accorti i primi missionari, che hanno avuto la saggezza di farla entrare in dialogo con il messaggio del Vangelo. Avevano uno stile missionario, misericordioso, che era in contrasto con la prepotenza omicida dei conquistatori. Si tenga pure in conto il messaggio guadalupano, nel quale la Madonna, pochi anni dopo la conquista, chiede proprio all’indio Juan Diego di costruire una casa. E ciò che venne costruito fu proprio una Chiesa.
D. – Quanto è forte ancora la devozione alla Madonna di Guadalupe?
R. – In Messico si dice che otto persone su dieci sono cattoliche e che dieci su dieci sono guadalupane. Qui possiamo distinguere tre atteggiamenti: incontro, tenerezza e misericordia; proprio quegli atteggiamenti che caratterizzano lo stile missionario che Papa Francesco chiede alla Chiesa in uscita, missionaria.
D. – In molti Paesi dell’America Latina le sette religiose sono un pericolo reale. Avviene lo stesso in Messico?
R. – Sì, credo che il Messico non scappi alla situazione globale dell’America Latina. E le sette sono una realtà: queste sono un pericolo, perché si racchiudono in se stesse e non vogliono dialogare. Credo che negli ultimi anni la Chiesa in Messico abbia fatto un bel percorso nel cammino del dialogo ecumenico. Nonostante ciò la Chiesa si trova in difficoltà a dialogare con i dirigenti delle sette che hanno un atteggiamento piuttosto ostile nei confronti della Chiesa. Con i loro metodi proselitisti, le sette dividono le comunità e le famiglie, e con il controllo che hanno sulle persone fanno rinunciare alla loro libertà. Come autocritica, si deve riconoscere che le sette fioriscono dove la comunità cattolica non è presente o dove la missione evangelizzatrice ha perso vigore sia per la mancanza sia per la stanchezza degli evangelizzatori.
D. – Parliamo un po’ delle società occidentali, dove purtroppo il pericolo del relativismo è molto forte. Qual è la situazione in Messico?
R. – Il relativismo è un fatto che esiste in Messico. A mio parere, per affrontare questa sfida la Chiesa in Messico deve far crescere la sua capacità di dialogo: capire il suo ruolo in una società plurale come un’attrice sociale tra altre e soprattutto con la testimonianza.
D. – La Chiesa sappiamo che in Messico spende spesso la sua parola a favore di indigeni, immigrati e contro il traffico di droga: quali risultati concreti ha portato questo impegno?
R. – La Chiesa in Messico, secondo i sondaggi, è, tra le istituzioni sociali, ancora credibile per la maggioranza dei messicani. Per quanto riguarda le comunità etniche, nel corso della storia ci sono casi in cui l’evangelizzazione si è legata veramente alla promozione umana. Potrei citare nel 1500 il caso del servo di Dio Vasco de Quiroga, primo vescovo di Michoacán, la cui opera e memoria rimangono vive nell’etnia Purépecha, proprio perché è stato per loro un vero padre e promotore del loro sviluppo umano. Più di recente, nel 1900, potrei citare il vescovo Jesús Sahagún de la Parra, che promosse con i sacerdoti consacrati e i laici un’opera evangelizzatrice che ha trasformato le condizioni di vita dell’etnia otomí nel Valle del Mezquital. Per quanto riguarda la cultura dei diritti umani, quella che esiste nel Messico si deve all’impegno dei Gesuiti e dei Domenicani, che instancabilmente hanno lavorato e lavorano perché i diritti umani siano riconosciuti, tutelati e promossi. Il problema del traffico di droga esiste da tempo, ma non era visibile, perché si faceva di nascosto o con la complicità di alcune autorità. È diventato più visibile dal 2000 in poi, quando, al traffico della droga si è aggiunta la violenza omicida che ha causato varie decine di migliaia di vittime. Nel 2010, i vescovi messicani hanno pubblicato una Lettera pastorale proprio per la costruzione della pace. Da quell’anno in poi, si promuovono nelle diocesi diverse iniziative, come la formazione degli operatori per la pace. I risultati non sono ancora visibili a livello nazionale; a livello regionale o locale potrei citare l’impegno dell’Arcidiocesi di Acapulco, della Diocesi di Cuernavaca, di quella di Zamora e di altre.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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