Debora Donnini – Città del Vaticano
I cristiani sono chiamati ad essere “instancabili operatori di pace” nel Mare nostrum, lacerato da divisioni e diseguaglianze, ricercando il bene comune. La strada perché il Mediterraneo sia un luogo di pace è, infatti, quella del dialogo, della convivialità e dell’accoglienza, non dell’indifferenza o della paura che porta ad alzare difese “davanti a quella che strumentalmente viene dipinta come un’invasione”. Incontrando nella Basilica di San Nicola, vescovi e patriarchi dell’area, riuniti fino a oggi a Bari, il Papa traccia la rotta da seguire per costruire relazioni di pace e di prosperità nel Mediterraneo, che in un contesto eterogeneo di culture è segnato da focolai di conflitto e dalle sofferenze di chi fugge dalle proprie terre. La bussola che indica è quella ricerca del bene comune che è “un altro nome della pace”, un impegno che non può essere disgiunto dall’annuncio del Vangelo. Pertanto, il Papa chiede ai cristiani di custodire il patrimonio della fede, e anche della pietà popolare, esperienza irrinunciabile, dice richiamandosi alla Evangelii nuntiandi di Paolo VI che cambiò il nome da religiosità a pietà. Da proteggere anche il patrimonio artistico che unisce contenuti della fede e la bellezza dell’arte, attraendo milioni di visitatori.
Prima del suo discorso, alcuni interventi fra cui l’introduzione del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, che ha organizzato l’incontro. Ricordando la sua scelta di incontrare, un anno e mezzo fa, proprio a Bari, i responsabili della comunità cristiane del Medio Oriente, sottolinea che quella era la prima volta dopo il grande scisma, tanto che Bari potrebbe essere chiamata la capitale dell’unità della Chiesa. Francesco, quindi, ribadisce la vocazione al dialogo ecumenico e interreligioso di questa diocesi, prima di entrare nel vivo del suo intervento. Rimarca, anche l’importanza di questo mare, dove ha preso forma la “nostra civiltà” come crocevia di popoli diversi. Un’importanza accentuata dalla globalizzazione tanto da essere una “zona strategica” per gli equilibri anche di altre parti del mondo. Un mare piccolo eppure grande: “il grande lago di Tiberiade” lo chiamava Giorgio la Pira, noto come “il sindaco santo” di Firenze e conosciuto per il suo impegno sul fronte della pace, a cui il Papa si richiama più volte nel discorso.
Lo sguardo di Papa Francesco si posa sull’attualità di quest’area, insidiata da tanti “focolai di instabilità e di guerra” sia in Medio Oriente sia in vari Stati del Nord Africa così come fra etnie e gruppi religiosi, senza dimenticare “il conflitto ancora irrisolto tra israeliani e palestinesi, con il pericolo di soluzioni non eque e, quindi, foriere di nuove crisi”. In questo contesto, il Papa ricorda che la guerra è “contraria alla ragione”, come disse San Giovanni XXIII: “una follia”, perché folle è distruggere case, fabbriche, ospedali, uccidere persone anziché “costruire relazioni umane ed economiche”.
È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai. Il fine ultimo di ogni società umana rimane la pace, tanto che si può ribadire che «non c’è alternativa alla pace, per nessuno». Non c’è alcuna alternativa sensata alla pace, perché ogni progetto di sfruttamento e supremazia abbruttisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, dato che priva del futuro non solo l’altro, ma anche se stessi. La guerra appare così come il fallimento di ogni progetto umano e divino:
Quindi, a braccio, sottolinea “il grave peccato” di “grande ipocrisia”, quando nelle convenzioni internazionali, tanti Paesi “parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi che stanno in guerra”.
Oltre che alla questione dei conflitti, l’attenzione del Papa si volge anche al fenomeno migratorio che “con le sue dinamiche epocali, segnerà profondamente la regione mediterranea”. Si tratta di un numero di persone che è andato aumentando a causa dei conflitti e delle condizioni climatiche di zone sempre più ampie. Una realtà che interpella non solo i Paesi di transito e di destinazione finale ma anche i governi e le Chiese degli Stati di provenienza dei migranti, che con la partenza di tanti giovani vedono depauperarsi il loro futuro. Di fronte a tale scenario, il Papa chiede di non chiudersi in un atteggiamento di “indifferenza” o perfino di “rifiuto”, che fa pensare all’atteggiamento, stigmatizzato in molte parabole evangeliche, di chi si chiude nella propria ricchezza senza accorgersi di chi invoca aiuto:
Si fa strada un senso di paura, che porta ad alzare le proprie difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione. La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio. L’inadempienza o, comunque, la debolezza della politica e il settarismo sono cause di radicalismi e terrorismo.
“La comunità internazionale si è fermata agli interventi militari, mentre dovrebbe costruire istituzioni” che garantiscano luoghi dove farsi carico del bene comune.
E, ancora, nel cuore di Papa anche i cristiani perseguitati. Chiede, quindi, di alzare la voce “per chiedere ai Governi la tutela delle minoranze e della libertà religiosa. La persecuzione di cui sono vittime soprattutto – ma non solo – le comunità cristiane è una ferita che lacera il nostro cuore e non ci può lasciare indifferenti”. Allo stesso tempo esorta a non accettare “mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso o che chi giunge da lontano diventi vittima di sfruttamento sessuale, sia sottopagato o assoldato dalle mafie”.
Certo, l’accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia, è impensabile poterlo affrontare innalzando muri. A me fa paura quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo e mi fa sentire discorsi che seminavano paura e poi odio nella decade del ’30 del secolo scorso. Questo processo di accoglienza e dignitosa integrazione è impensabile, ho detto, poterlo affrontare innalzando muri.
Francesco ricorda, infatti, che il Mediterraneo è il “mare del meticciato”, sempre aperto all’incontro e al dialogo che permette di superare pregiudizi e stereotipi. “Le purezze delle razze non hanno futuro”, sottolinea. “Non lasciamo che a causa di uno spirito nazionalista” – raccomanda – si diffonda la persuasione che “siano privilegiati gli Stati meno raggiungibili e geograficamente più isolati”. E se si costruisce un’accoglienza non superficiale, promossa da chi fa politica e cultura, allora i giovani possono essere linfa capaci di generare futuro.
La sua esortazione centrale è quella di ricostruire nella direzione della vita.
Ecco l’opera che il Signore vi affida per questa amata area del Mediterraneo: ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello e guardare questo già divenuto cimitero come un posto di futura resurrezione di tutta l’area.
Quindi, il Papa sviscera anche la portata teologica del dialogo in quanto ci si mette in ascolto dello Spirito di Dio, che opera anche nell’altro, esortando a elaborare proprio una teologia in questo senso:
Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà, estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani. È anche per questo che si rende urgente un incontro più vivo tra le diverse fedi religiose, mosso da un sincero rispetto e da un intento di pace.
Centrale, in questo senso, il richiamo a quei principi di fratellanza espressi nel Documento di Abu Dhabi, firmato lo scorso anno. E il Papa individua nel sostegno ai poveri la possibilità di una collaborazione fra i gruppi religiosi: “quanti insieme si sporcano le mani per costruire la pace e praticare l’accoglienza – dice – non potranno più combattersi per motivi di fede”. Sottolinea poi quel clima di indifferenza che ha sentito quando è andato a Lampedusa: sull’isola c’era accoglienza ma nel mondo c’è la cultura dell’indifferenza.
Presupposto per poter costruire la pace è la giustizia, che è però ostacolata dalla cultura dello scarto che accresce le disuguaglianze tanto che sulle sponde dello stesso mare vivono società dell’abbondanza mentre molti lottano per la sopravvivenza. I cristiani contrastano tale cultura con le “innumerevoli opere di carità” e educazione. Francesco segnala proprio un criterio, indicato dallo stesso La Pira, per perseguire “il bene comune”, che è quello di lasciarsi guidare dalle “attese della povera gente”. Questo permette una “svolta antropologica radicale”, rendendo tutti più umani:
A cosa serve, del resto, una società che raggiunge sempre nuovi risultati tecnologici, ma che diventa meno solidale verso chi è nel bisogno? Con l’annuncio evangelico, noi trasmettiamo invece la logica per la quale non ci sono ultimi e ci sforziamo affinché la Chiesa, le Chiese, mediante un impegno sempre più attivo, sia segno dell’attenzione privilegiata per i piccoli e i poveri…
Quindi, conclude il suo lungo ed intenso discorso indicando in San Paolo, che per primo ha solcato il Mediterraneo, un esempio da seguire per trasmettere la fede, e nelle parole di speranza del profeta Isaia davanti alla desolazione di Gerusalemme a seguito dell’esilio, l’orizzonte cui tendere.
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