Un nuovo appello per la pace di Papa Francesco, durante l’Angelus di questa domenica in Piazza San Pietro. La crisi ucraina puo’ diventare ancora una crisi per statisti saggi, e di aiuti per le nuove generazioni. Passare dalle politiche strategiche, ad un mondo unito tra popoli e civiltà che si rispettino.
All’Angelus di questa prima domenica di luglio, Francesco ricorda che nel portare il Vangelo agli altri ciò che conta non è il ‘fare’, con protagonismo, competitività e secondo una logica di efficientismo. L’essenziale è la capacità di camminare con i fratelli nel reciproco rispetto
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel Vangelo della Liturgia di questa domenica leggiamo che «il Signore designò altri settantadue [discepoli] e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1). I discepoli sono inviati a due a due, non singolarmente. Andare in missione a due a due, da un punto di vista pratico, sembrerebbe comportare più svantaggi che vantaggi. C’è il rischio che i due non vadano d’accordo, che abbiano un passo diverso, che uno si stanchi o si ammali lungo la via, costringendo anche l’altro a fermarsi. Quando invece si è da soli, sembra che il cammino diventi più spedito e senza intoppi. Gesù però non la pensa così: davanti a sé non invia dei solitari, ma discepoli che vanno a due a due. Domandiamoci: qual è la ragione di questa scelta del Signore?
Compito dei discepoli è di andare avanti nei villaggi e preparare la gente ad accogliere Gesù; e le istruzioni che Egli dà loro sono non tanto su che cosa devono dire, quanto su come devono essere: sulla testimonianza da dare più che sulle parole da dire. Infatti li definisce operai: sono cioè chiamati a operare, a evangelizzare mediante il loro comportamento. E la prima azione concreta con cui i discepoli svolgono la loro missione è proprio quella di andare a due a due.
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Non sono dei “battitori liberi”, dei predicatori che non sanno cedere la parola a un altro. È anzitutto la vita stessa dei discepoli ad annunciare il Vangelo: il loro saper stare insieme, il rispettarsi reciprocamente, il non voler dimostrare di essere più capace dell’altro, il concorde riferimento all’unico Maestro.
Si possono elaborare piani pastorali perfetti, mettere in atto progetti ben fatti, organizzarsi nei minimi dettagli; si possono convocare folle e avere tanti mezzi; ma se non c’è disponibilità alla fraternità, la missione evangelica non avanza.
Una volta, un missionario raccontava di essere partito per l’Africa insieme a un confratello. Dopo qualche tempo però si separò da lui, fermandosi in un villaggio dove realizzò con successo una serie di attività edilizie per il bene della comunità. Tutto funzionava bene. Ma un giorno ebbe come un sussulto: si accorse che la sua vita era quella di un bravo imprenditore, sempre in mezzo a cantieri e carte contabili! Allora lasciò la gestione ad altri, ai laici, e raggiunse il suo confratello. Comprese così perché il Signore aveva mandato i discepoli “a due a due”: la missione evangelizzatrice non si basa sull’attivismo personale, cioè sul “fare”, ma sulla testimonianza di amore fraterno, anche attraverso le difficoltà che il vivere insieme comporta.
Allora possiamo chiederci: come portiamo agli altri la buona notizia del Vangelo? Lo facciamo con spirito e stile fraterno, oppure alla maniera del mondo, con protagonismo, competitività ed efficientismo? Domandiamoci se abbiamo la capacità di collaborare, se sappiamo prendere decisioni insieme, rispettando sinceramente chi ci sta accanto e tenendo conto del suo punto di vista. Infatti, è soprattutto così che la vita del discepolo lascia trasparire quella del Maestro, annunciandolo realmente agli altri.
La Vergine Maria, Madre della Chiesa, ci insegni a preparare la strada al Signore con la testimonianza della fraternità.
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