Il disappunto di Ankara
Le parole pronunciate dal Papa irritano fortemente le autorità turche. Il nunzio della Santa Sede ad Ankara Antonio Lucibello è stato convocato dal Ministero degli Esteri per esprimere il «disappunto» e la protesta del governo. Ankara ha poi richiamato il proprio ambasciatore presso il Vaticano. L’irritazione turca segna una crisi nel rapporti del Vaticano con Ankara, a distanza di poco più di quattro mesi dalla visita del Papa in Turchia. Il Paese continua a negare strenuamente che quello del 1915-16 sia stato un genocidio e combatte una guerra diplomatica permanente – che ora investe anche la Santa Sede – per cercare di impedire che venga riconosciuto all’estero da un numero crescente di Stati.
Il rito
Al rito, durante il quale il Papa ha proclamato dottore della Chiesa l’armeno san Gregorio di Narek, erano presenti il presidente dell’Armenia Serž Sargsyan; Karekin II, Patriarca e Catholicos di tutti gli armeni; Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia; Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli armeni cattolici.
Il genocidio dell’indifferenza
«Anche oggi – dice il Papa – stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino. La nostra umanità – aggiunge – ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come “il primo genocidio del XX secolo”; essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi». Bergoglio torna dunque a pronunciare la parola «genocidio» legata al massacro degli armeni, anche se lo fa citando il predecessore Giovanni Paolo II, che usò quella espressione nella dichiarazione comune firmata con Karekin II il 27 settembre 2001 a Etchmiadzin.
Altre due tragedie «inaudite»
Le altre due «tragedie inaudite», spiega ancora il Pontefice, «furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che la guerra è una follia, una inutile strage». «Cari fedeli armeni – ha detto Francesco – oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!»
I «perché» senza risposta
Nell’omelia della messa, Papa Bergoglio ha aggiunto: «Di fronte agli eventi tragici della storia umana rimaniamo a volte come schiacciati, e ci domandiamo “perché?”. La malvagità umana può aprire nel mondo come delle voragini, dei grandi vuoti: vuoti di amore, vuoti di bene, vuoti di vita. E allora ci domandiamo: come possiamo colmare queste voragini? Per noi è impossibile; solo Dio può colmare questi vuoti che il male apre nei nostri cuori e nella nostra storia. È Gesù, fatto uomo e morto sulla croce, che colma l’abisso del peccato con l’abisso della sua misericordia».
Il centenario
Al termine della celebrazione il Papa ha consegnato un messaggio dedicato al centenario del genocidio. «Fare memoria di quanto accaduto – vi si legge – è doveroso non solo per il popolo armeno e per la Chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti, questi conflitti talvolta degenerano in violenze ingiustificabili, fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono posti a capo delle nazioni e delle Organizzazioni internazionali sono chiamati ad opporsi a tali crimini con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi». «Questa dolorosa ricorrenza – aggiunge – diventi per tutti motivo di riflessione umile e sincera e di apertura del cuore al perdono, che è fonte di pace e di rinnovata speranza… Dio conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh». (repubblica autoproclamatasi indipendente dall’Azerbaigian, situata nel Caucaso meridionale. Ndr)
La preghiera
«Per noi cristiani, questo sia soprattutto un tempo forte di preghiera, affinché il sangue versato, per la forza redentrice del sacrificio di Cristo, operi il prodigio della piena unità tra i suoi discepoli. In particolare rinsaldi i legami di fraterna amicizia che già uniscono la Chiesa cattolica e la Chiesa armena apostolica. La testimonianza di tanti fratelli e sorelle che, inermi, hanno sacrificato la vita per la loro fede, accomuna le diverse confessioni: è l’ecumenismo del sangue, che condusse san Giovanni Paolo II a celebrare insieme, durante il Giubileo del 2000, tutti i martiri del XX secolo».
L’anno nero
La tragedia del popolo armeno ebbe inizio in quello che allora era impero Ottomano cento anni fa, nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra le famiglie armene più in vista di Costantinopoli. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al Parlamento furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada.
L’esodo dimenticato
Arresti e deportazioni furono ispirate in gran parte dal partito «Giovani Turchi». Le famiglie armene furono costrette a lasciare le loro case e i loro averi, e furono costrette a marciare nel deserto: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. I racconti di questo tragico esodo, raccolti grazie alle preziose testimonianze dei sopravvissuti, sono strazianti. Le marce della morte vennero organizzate con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in collegamento con l’esercito turco. Altre centinaia di migliaia di armeni furono massacrati dalla milizia curda e dall’esercito turco. Testimonianza eloquente di quegli eventi sono le fotografie segretamente scattate da Armin T. Wegner. L’ampiezza e il programma mirato delle deportazioni lascia pochi dubbi sul fatto che quello degli armeni rappresenti il primo genocidio moderno, anche se il tema ha assunto una rilevanza politico-diplomatica internazionale, dato che la Turchia non soltanto si è sempre rifiutata di adoperare il termine «genocidio» ma protesta formalmente con tutti gli Stati che lo utilizzano, sostenendo che i morti – non solo armeni – furono «meno» di 500mila, uccisi dalla guerra o dalla fame.
Di Andrea Tornielli per Vatican Insider (La Stampa)
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