Categorie: Sancta Sedes

Papa Francesco, i due anni di un pontefice che scuote la Chiesa

Protagonista di grandi cambiamenti in Vaticano, continua a vivere nel segno dell’umiltà. Come quando portò fuori dalla sua stanza una sedia alla guardia svizzera per farla riposare.

ROMA – Nella stanza 201 della Domus Sanctae Martae la sveglia suona puntuale ogni mattina alle 4.45, le luci si accendono alle finestre del secondo piano che si affacciano a Nord sulle piazzetta e la facciata meridionale della Basilica di San Pietro. Non ci sono aiutanti di camera né procedure di vestizione, Bergoglio fa da sé e non si cura di quanto è sempre accaduto, con variazioni inessenziali, nei secoli precedenti. Giusto due anni fa cominciava il Conclave che l’indomani, alle 18.50 del 13 marzo, avrebbe eletto l’arcivescovo di Buenos Aires. Il cardinale occupava la stanza 207, il Papa si limitò a spostarsi nella 201 e cambiò tutto. Ne sa qualcosa la guardia che pochi giorni dopo vegliava in corridoio sul sonno pontificio.

Marzo 2013, prima dell’alba. Si apre la porta ed esce il Papa che vede accanto alla soglia un giovane svizzero, irrigidito sull’attenti, lo sguardo fisso davanti a sé. «Sei stato in piedi tutta la notte, figlio?». Il ragazzo deglutisce e mormora che in effetti non proprio tutta, ha dato il cambio a un collega. Francesco annuisce, rientra in camera e ne esce con una sedia. Si narra anche di un panino con la marmellata. La guardia svizzera cerca di obiettare che il regolamento vieta di sedersi (per tacere della colazione servita dal Pontefice, chi lo sente il comandante), ma il Papa lo rassicura – anche perché in Vaticano, in fin dei conti, comanda lui – e il ragazzo si siede. 

Ecco, i «muri» hanno cominciato a crollare anche così. A partire dalla scelta di non vivere nell’«imbuto rovesciato» dell’Appartamento apostolico ma in albergo, «non posso vivere da solo», riservando a sé quella cinquantina scarsa di metri quadri: anticamera, studio con tavolino e due librerie a parete, stanzetta da letto monastica, arredi ridotti all’essenziale di legno scuro, luci al neon. Non è stato facile, ma in un paio d’anni chi vive e lavora in Vaticano e soprattutto nel «Convitto» – il Papa gesuita chiama l’albergo così, come in una comunità di religiosi – ha finito col farci l’abitudine. «Mah, io cerco di essere libero, ci sono appuntamenti di ufficio, di lavoro… Veramente mi piacerebbe poter uscire, però non si può… Ma poi la vita, per me, è la più normale che posso fare», ha spiegato ai giornalisti che gli chiedevano se non si sentisse prigioniero, lui che a Buenos Aires girava in metrò. «No, no. All’inizio sì, ma adesso sono caduti alcuni muri, non so, tipo “il Papa non può!”. Un esempio, per farvi ridere: vado a prendere l’ascensore e subito viene uno, perché il Papa non poteva scendere in ascensore da solo! E perché? Ma tu vai al tuo posto, che io scendo da solo!». Nel senso che non vuole accompagnatori: se invece le porte si aprono e c’è già qualcuno, altri ospiti o dipendenti che all’inizio tentavano imbarazzati di uscire («ma no, ci stringiamo e ci stiamo tutti»), Francesco non si fa problemi, conversa, chiede delle famiglie, «la normalità della vita».

Una vita fitta di impegni e incontri, quella del Papa. Ma la seconda delle «malattie» che a Natale elencava alla Curia è quella della «eccessiva operosità» che «fa trascurare la parte migliore: sedersi sotto i piedi di Gesù». Prima di scendere per la messa delle sette – ogni mattina dal lunedì al venerdì, tranne il mercoledì dell’udienza generale – il Papa gesuita, formato alla meditazione ignaziana, resta per due ore da solo in camera. Ufficio mattutino, preghiera dei Salmi, Letture del giorno e preparazione dell’omelia. Qualche minuto prima delle sette è già nella cappella in fondo all’atrio. Dai dipendenti vaticani ai fedeli delle parrocchie romane, ogni giorno la messa si riempie di poche decine di fedeli. Il Papa saluta e parla con tutti, si sofferma ancora a pregare, quindi va a fare colazione nel «refettorio» comune. Siede a un tavolo laterale a sinistra dell’ingresso con i due segretari e gli aiutanti, il suo tovagliolo in una bustina come gli altri ospiti, salvo la scritta «P. Francesco», perché all’inizio glielo cambiavano tre volte al giorno e a lui – come ha raccontato Aldo Maria Valli nel libro Con Francesco a Santa Marta – non sembrava il caso: «Ma che spreco! Perché bisogna cambiare un tovagliolo pulito?».

Poi gli impegni cominciano. Nello studio del Papa arrivano i «cifrati» dalle nunziature del mondo, la rassegna stampa, una selezione delle migliaia di lettere che gli arrivano dai fedeli, documenti vari. Le udienze di tabella e gli incontri avvengono di norma al Palazzo apostolico – salvo eccezioni, come quando accolse a Santa Marta Shimon Peres e Abu Mazen – così Francesco si sposta quasi ogni mattina nella residenza ufficiale: nella bella stagione si concede una passeggiata, sorvegliata con discrezione dai gendarmi vaticani, ma di solito usa la Ford Focus blu targata SCV 00919 che era assegnata ai servizi generali prima che Bergoglio («ecco, quella per me va bene») la vedesse per caso parcheggiata. Avanti e indietro dal Palazzo apostolico a Santa Marta, da una a tre volte al giorno secondo i casi, c’è anche la macchina della Gendarmeria che porta al Papa la borsa di documenti inviata dalla Segreteria di Stato. 

Verso le 13 Francesco torna nel refettorio, dove pranzano anche gli altri ospiti – funzionari della Segreteria di Stato e vescovi, sacerdoti e religiosi – e il personale. Capita che vada a salutare in cucina. Qui si misura la portata della scelta di Bergoglio, capace di spezzare quel clima da «corte» rinascimentale nel quale il «potere» in Vaticano era misurato dall’essere o meno ammessi all’Appartamento del Papa. Dopo pranzo Francesco risale in camera per una mezz’ora di riposo, poi si ricava un altro spazio di preghiera prima di ricominciare a lavorare nello studio di Santa Marta per tutto il pomeriggio. Incontri, lettere, telefonate. Chi gli è vicino racconta di ritmi serrati, le uniche pause dedicate al Rosario. La cena è alle 20 ma «la sera, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora di adorazione», spiegava a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica . «La preghiera per me è sempre una preghiera “memoriosa”… Per me è la memoria di cui Sant’Ignazio parla nella prima settimana degli Esercizi nell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”».

Dal refettorio, finito di cenare, Francesco torna in camera presto, intorno alle 21. Il letto sormontato da un Crocifisso, un armadio, un mobile con sopra una statuetta di legno policroma che si è portata da Buenos Aires e raffigura San Giuseppe dormiente. «Il riposo di Giuseppe gli ha rivelato la volontà di Dio», raccontava in gennaio alle famiglie di Manila. «Sul mio tavolo ho un’immagine di San Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa. Quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni».

di Gian Guido Vecchi per Corriere della Sera

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