«Incoraggiare i più giovani a diventare grandi dentro, e magari anche campioni nella vita»: è il compito che il Papa ha affidato ai partecipanti all’incontro «Il calcio che amiamo» — promosso dal quotidiano «La Gazzetta dello sport» e dalla Federazione italiana gioco calcio — durante l’udienza di venerdì mattina, 24 maggio, nell’Aula Paolo VI.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi saluto tutti e ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole. Devo leggere, adesso, un discorso di cinque pagine. Dite voi… Sì o no? Chi è perché io non lo legga e consegni questo al Presidente: chi è per il no?… Adesso, chi è per il sì?… Sentite, sono cinque pagine, dovete stare zitti… Avanti.
Vedervi — quando ho sentito quel grido [la ola], come se io avessi segnato — mi fa tornare alla mente ciò che amava ripetere ai suoi educatori San Giovanni Bosco, l’inventore degli oratori: «Volete i ragazzi? Buttate in aria un pallone e prima che tocchi terra vedrete quanti si saranno avvicinati!». Possiamo ben dirlo che dietro a una palla che rotola c’è quasi sempre un ragazzo con i suoi sogni e le sue aspirazioni, il suo corpo e la sua anima. In un’attività sportiva non sono coinvolti solo i muscoli ma l’intera personalità di un ragazzo, in tutte le sue dimensioni, anche quelle più profonde. Infatti, di qualcuno che si sta impegnando molto, si dice: «sta dando l’anima». Tutto coinvolto in quel lavoro, in quello sport.
Lo sport è una grande occasione per imparare a dare il meglio di sé, con sacrificio e impegno, ma soprattutto non da soli. Sentite bene questo: lo sport, non da soli. Viviamo in un tempo in cui, grazie anche alla presenza massiccia delle nuove tecnologie, è facile isolarsi, creare legami virtuali con tanti ma a distanza. Legami, ma da soli. Il bello di giocare con un pallone è di poterlo fare insieme ad altri, passandoselo in mezzo a un campo, imparando a costruire azioni di gioco, affiatandosi come squadra… Il pallone diventa un mezzo per invitare le persone reali a condividere l’amicizia, a ritrovarsi in uno spazio, a guardarsi in faccia, a sfidarsi per mettere alla prova le proprie abilità. Cari amici: il calcio è un gioco di squadra, non ci si può divertire da soli! E se è vissuto così, può davvero far bene anche alla testa e al cuore in una società che esaspera il soggettivismo, cioè la centralità del proprio io, quasi come un principio assoluto. Il calcio è un gioco di squadra, e questo fa bene a tutti noi.
Tanti definiscono il calcio come «il gioco più bello del mondo». Io penso lo stesso, [applauso] ma è un’opinione personale. Ma spesso si sente anche dire: «il calcio non è più un gioco!». Purtroppo infatti assistiamo, anche nel calcio giovanile, in campo o a bordocampo, a fenomeni che macchiano la sua bellezza. Ad esempio, si vedono certi genitori che si trasformano in tifosi ultras, o in manager, in allenatori…
Mi piace sottolineare che la vostra Federazione si chiama Federazione Italiana… Calcio? No: Gioco Calcio: c’è proprio la parola “gioco”. Ma a volte questa parola viene dimenticata, e magari sostituita — di nascosto — con altre meno coerenti, se non del tutto contrarie alle finalità. Invece è un gioco e tale deve rimanere! Il calcio è un gioco: lo diciamo insieme? Il calcio è un gioco [lo ripetono tutti] Ecco. Non dimenticate questo: il calcio è un gioco.
Un giorno una giornalista chiese a una teologa come si poteva spiegare a un bambino la felicità. Non è facile spiegare a un bambino la felicità. La teologa ha risposto: «Io non la spiegherei, gli darei un pallone per giocare». Questa è la felicità.
Giocare rende felici perché si può esprimere la propria libertà, si gareggia in modo divertente, si vive un tempo nella gratuità semplicemente… perché? Perché?… Perché piace, giocare a calcio piace, si rincorre un sogno senza, però, diventare per forza un campione. Anche la Carta dei Diritti dei Ragazzi allo sport ribadisce il diritto di ogni ragazzo di «non essere un campione» (art. 10). È un diritto giocare, e ho il diritto di non diventare un campione, ma ho la felicità di giocare.
Cari genitori, vi esorto a trasmettere ai vostri figli questa mentalità: il gioco, la gratuità, la socialità… A incoraggiarli nei momenti difficili, specialmente dopo una sconfitta… E ad aiutarli a capire che la panchina non è un’umiliazione, ma un’occasione per crescere e un’opportunità per qualcun altro. Che abbiano sempre il gusto di dare il massimo, perché al di là della partita c’è la vita che li aspetta.
In questo compito educativo, genitori, vi invito a cercare alleanza con la società sportiva dei vostri figli, soprattutto con gli allenatori. Allenare è una sorta di accompagnamento, come un guidare verso un di più e un meglio. Ci si allena per migliorare le proprie qualità fisiche, tecniche così da essere in grado di affrontare le sfide. In quest’avventura, voi allenatori avete un ruolo importante, perché vi trovate ad essere dei punti di riferimento autorevoli per i ragazzi che allenate: con voi passano tanto tempo, in un’attività che a loro piace e li gratifica, e siete figure “altre” rispetto ai genitori. Tutto ciò che dite e fate, il modo in cui lo dite e lo fate, diventa insegnamento per i vostri atleti, cioè lascerà un segno indelebile nella loro vita, in bene o in male.
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Qualcuno ha detto che camminava in punta di piedi sul campo per non calpestare i sogni sacri dei ragazzi. Vi chiedo di non trasformare i sogni dei vostri ragazzi in facili illusioni destinate a scontrarsi presto con i limiti della realtà; a non opprimere la loro vita con forme di ricatto che bloccano la loro libertà e fantasia; a non insegnare scorciatoie che portano solo a perdersi nel labirinto della vita. Possiate invece essere sempre complici del sorriso dei vostri atleti! È bello questo: essere complice del sorriso dei nostri atleti.
Un’ultima parola — sto per finire, state tranquilli — un’ultima parola la voglio rivolgere ai grandi campioni del calcio, a cui si ispirano questi giovani atleti. Non dimenticate da dove siete partiti: quel campo di periferia, quell’oratorio, quella piccola società… Vi auguro di sentire sempre la gratitudine per la vostra storia fatta di sacrifici, di vittorie e sconfitte. E di sentire anche la responsabilità educativa, da attuare attraverso una coerenza di vita e la solidarietà con i più deboli, per incoraggiare i più giovani a diventare grandi dentro, e magari anche campioni nella vita. Grandi nella vita: questa è la vittoria di noi tutti, è la vittoria di voi che giocate a calcio. E ai dirigenti: per favore, custodite sempre la “amatorialità”, che è uno spirito… Che non finisca la bellezza del calcio in un do ut des degli affari finanziari.
Grazie tante! Vi benedico tutti. E per favore vi chiedo di pregare per me. Grazie.
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