Papa Francesco ha incontrato circa 600 operatori al servizio dei detenuti del carcee romano di Regina Coeli. Presenti agenti di custodia, medici, educatori, amministrativi, cappellani e volontari della casa circondariale “Regina Coeli”. A loro il Santo Padre ha ricordato che la pena, in carcere, è sia il tempo che il detenuto deve scontare per i reati commessi. Ma si tratta anche di un tempio di sofferenza per la privazione della libertà. Ma, con l’aiuto di chi opera “al servizio dei detenuti”, il carcere può diventare “laboratorio di umanità e speranza”, luogo “di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita”.
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Prima dell’arrivo di Papa Francesco, sugli schermi dell’aula, i partecipanti, hanno potuto rivedere la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo dello scorso anno, il 29 marzo 2018, celebrata da Francesco nel carcere di Trastevere.
Il Pontefice ha espresso la sua riconoscenza e quella della Chiesa per “il vostro lavoro accanto ai reclusi” che “richiede fortezza interiore, perseveranza e consapevolezza della specifica missione alla quale siete chiamati”. E anche “buon senso nelle diverse situazioni nelle quali vi troverete”, aggiunge lasciando il testo preparato.
Il carcere è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità. È un luogo dove tutti, Polizia Penitenziaria, Cappellani, educatori e volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale.
Una buona collaborazione tra i diversi servizi nel carcere, ricorda ancora Papa Francesco, “svolge un’azione di grande sostegno per la rieducazione dei detenuti”. Ma per la “carenza di personale” e il “cronico sovraffollamento”, “il faticoso e delicato lavoro rischia di essere in parte vanificato”.
E qui Papa Francesco fa appello all’ “equilibrio personale” e alle “valide motivazioni” del personale carcerario, che vanno “costantemente rinnovate”, per sopportare “lo stress lavorativo determinato dai turni pressanti e spesso la lontananza dalle famiglie”, che appesantiscono un lavoro che già di suo “comporta una certa fatica psicologica”.
Chi opera in un carcere non deve solo “garantire la custodia, l’ordine e la sicurezza dell’istituto”. Spesso deve anche “fasciare le ferite di uomini e donne che incontrate quotidianamente”
Nessuno può condannare l’altro per gli errori che ha commesso, né tantomeno infliggere sofferenze offendendo la dignità umana. Le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi di violenza e di illegalità, dove imperversano le cattiverie umane.
Papa Francesco chiede di non dimenticare “che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, non hanno famiglia, non hanno mezzi per difendere i propri diritti”. Per la società, per “l’inconscio collettivo“, i detenuti “sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso”. Ma le esperienze già vissute dimostrano che “il carcere, con l’aiuto degli operatori penitenziari, può diventare veramente un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita”. Grazie, ricorda il Pontefice, a “percorsi di fede, di lavoro e di formazione professionale, ma soprattutto di vicinanza spirituale e di compassione, sull’esempio del buon Samaritano, che si è chinato a curare il fratello ferito”.
Un atteggiamento di prossimità, conclude Papa Francesco, “che trova la sua radice nell’amore di Cristo”. “Può favorire in molti detenuti la fiducia, la consapevolezza e la certezza di essere amati”. Infatti, aggiunge alzando gli occhi dal testo scritto, “ognuno deve avere sempre la speranza del reinserimento”. Ogni pena, sempre, “deve avere la finestra aperta per la speranza del reinserimento”. Una pena senza speranza, spiega il Papa, “non serve, non aiuta, provoca nel cuore sentimenti di odiosità, tante volte di vendetta e la persona esce peggio di come è entrata“. Per questo, però, serve la concordia e l’unità tra gli operatori penitenziari.
Tutti insieme, Direzione, Polizia Penitenziaria, Cappellani, area educativa, volontariato e comunità esterna siete chiamati a marciare in un’unica direzione, per aiutare a rialzarsi e a crescere nella speranza quanti sono, purtroppo, caduti nella trappola del male. Da parte mia, vi accompagno con il mio affetto, che è sincero, e con la mia preghiera, perché possiate contribuire, con il vostro lavoro, a far sì che il carcere, luogo di pena e di sofferenza, sia anche laboratorio di umanità e di speranza. Nell’altra diocesi andavo spesso al carcere e ogni 15 giorni, le domeniche, faccio una telefonata a un gruppo di carcerati in un carcere che visitavo con frequenza.
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E sempre a braccio, Francesco racconta: “sempre ho avuto una sensazione quando entravo nel carcere: perché loro e non io? Mi ha fatto tanto bene quello. Perché loro e non io? Avrei potuto essere lì… e no. Il Signore mi ha dato una grazia che i miei peccati e le mie mancanze siano state perdonate e non viste, non so. Ma quella domanda aiuta tanto: perché loro e non io?“
Fonte vaticannews.va – Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
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