La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Sono le parole di Papa Francesco al termine della catechesi di questo mercoledì nell’udienza in Aula Paolo VI. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio – ha ricordato il Pontefice – in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto
LE PAROLE DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo oggi a meditare il Decalogo, approfondendo il tema dell’idolatria, e prendiamo spunto dall’idolo per eccellenza, il vitello d’oro, di cui parla il Libro dell’Esodo (32,1-8) – ne abbiamo appena ascoltato un brano. Questo episodio ha un preciso contesto: il deserto, dove il popolo attende Mosè, che è salito sul monte per ricevere le istruzioni da Dio.
E in quel deserto accade qualcosa che innesca l’idolatria. Perché? Perché «Mosè tardava a scendere dal monte» (Es 32,1). Manca il punto di riferimento, la guida rassicurante, e ciò diventa insostenibile. Allora il popolo chiede un dio visibile per potersi identificare e orientare. Dicono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa!».
La natura umana, per sfuggire alla precarietà, cerca una religione “fai-da-te”: se Dio non si fa vedere, ci facciamo un dio su misura. «Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani» (Enc. Lumen fidei, 13).
Aronne non sa opporsi alla richiesta della gente e crea un vitello d’oro. Il vitello aveva un senso duplice nel vicino oriente antico: da una parte rappresentava fecondità e abbondanza, e dall’altra energia e forza. Ma anzitutto è d’oro, perciò è simbolo di ricchezza. Successo, potere e denaro. Sono le tentazioni di sempre! Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano.
Ma tutto nasce dall’incapacità di confidare soprattutto in Dio, di riporre in Lui le nostre sicurezze, di lasciare che sia Lui a dare vera profondità ai desideri del nostro cuore. Questo permette di sostenere anche la debolezza, l’incertezza e la precarietà.
Senza primato di Dio si cade facilmente nell’idolatria e ci si accontenta di misere rassicurazioni. Quando si accoglie il Dio di Gesù Cristo, che da ricco si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9), si scopre allora che riconoscere la propria debolezza non è la disgrazia della vita umana, ma è la condizione per aprirsi a colui che è veramente forte. Allora, per la porta della debolezza entra la salvezza di Dio (cfr 2 Cor 12,10); è in forza della propria insufficienza che l’uomo si apre alla paternità di Dio. La libertà dell’uomo nasce dal lasciare che il vero Dio sia l’unico Signore. Questo permette di accettare la propria fragilità e rifiutare gli idoli del nostro cuore.
Noi cristiani volgiamo lo sguardo a Cristo crocifisso (cfr Gv 19,37), che è debole, disprezzato e spogliato di ogni possesso. Ma in Lui si rivela il volto del Dio vero, la gloria dell’amore e non quella dell’inganno luccicante. Isaia dice: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53,5).
La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio; in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto. Grazie.
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Servizio di Francesco Rossi per la Redazione Papaboys
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