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Papa Francesco in aereo: ‘si fanno meno figli per troppo attaccamento al benessere!’

Papa Francesco in aereo: ‘si fanno meno figli per troppo attaccamento al benessere!’

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La conferenza stampa sul volo di ritorno dall’Africa: Francesco ricorda la gioia dei bambini incontrati e afferma che lo Stato ha il dovere di prendersi cura della famiglia. Dice che la xenofobia è «una malattia» e chiede di preservare l’identità dei popoli dalle colonizzazioni ideologiche. Parla delle critiche che riceve e a una domanda sulle tentazioni scismatiche risponde: «Prego perché non ci siano, ma non ho paura»

Dal volo Antananarivo-RomaVaticannews.va

Papa Francesco, due ore e mezza dopo il decollo del volo Air Madagascar da Antananarivo a Roma, ha incontrato i giornalisti al seguito e si è intrattenuto con loro per circa un’ora e mezza rispondendo alle loro domande. Ascolta la conferenza stampa del Papa

Julio Mateus Manjate (Noticias, Mozambico)
Nel passaggio in Mozambico lei si è riunito con il presidente della Repubblica e con i due presidenti dei due partiti presenti in Parlamento. Mi piacerebbe sapere qual è la sua aspettativa per il processo di pace, e quale messaggio vorrebbe lasciare al Mozambico. E due commenti veloci su due fenomeni: la xenofobia che c’è in Africa e l’impatto delle reti sociali nell’educazione dei giovani.

«Il primo punto sul processo di pace. Oggi si identifica il Mozambico con un lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e i suoi bassi, ma alla fine sono riusciti a concluderlo con un abbraccio storico. Io mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare uno sforzo affinché questo processo di pace vada avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me (Pio XII, ndr). Questo è chiaro, non bisogna dimenticarlo. È un processo di pace lungo perché ha avuto una prima tappa, poi si è interrotto, poi un’altra… E lo sforzo dei capi di partiti contrari non dire nemici è di andare l’uno incontro all’altro. È uno anche sforzo pericoloso, rischiavano la vita alcuni, ma alla fine si è arrivati alla conclusione. Io vorrei ringraziare in questo processo di pace tutta la gente, tutta la gente che ha dato un aiuto. A cominciare dal primo, che ha iniziato con un caffè… C’era gente lì, c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, che sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre (monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna ndr). E poi con l’aiuto di tanta gente, anche della Comunità di Sant’Egidio, sono arrivati a questo risultato, Noi non dobbiamo essere trionfalistici in queste cose. Il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace ancora è fragile nel tuo Paese, come nel mondo è fragile. La si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta, molta tenerezza, con molta delicatezza, con molto perdono, con molta pazienza, per farla crescere e che sia robusta. È il trionfo del Paese: la pace la pace è la vittoria del Paese, dobbiamo capire questo…. E questo vale per tutti i Paesi, che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Io mi dilungo un po’ su questo tema della pace perché ce l’ho a cuore. Quando alcuni mesi fa c’è stata la celebrazione dello sbarco in Normandia, si è vero c’erano i capi dei governi a fare memoria di quello che era l’inizio della fine di una guerra crudele, anche di una dittatura antiumana e crudele come il nazismo e il fascismo… ma su quella spiaggia sono rimasti 46 mila sodati, è il prezzo della guerra. Confesso che quando sono andato a Redipuglia per la commemorazione della Prima Guerra mondiale io ho pianto: “Per favore mai più la guerra!”. Quando sono andato ad Anzio a celebrare il giorno dei defunti, nel cuore sentivo che dobbiamo creare questa coscienza: le guerre non risolvono niente, anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono (la pace) dell’umanità. Scusatemi per questa appendice ma dovevo dirlo davanti a un processo di pace, per il quale prego e farò di tutto perché vada avanti e vi auguro che cresca con forza.


Secondo punto, il problema della gioventù. L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane, se noi facciamo il paragone con l’Europa, ripeterò quello che ho detto a Strasburgo: la madre Europa è quasi diventata la “nonna Europa”. È invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Ho letto – non ricordo di quale Paese, ma si tratta di una statistica ufficiale del governo – che nel 2050 in quel Paese ci saranno più pensionati che gente che lavora, questo è tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Io, è un’opinione personale, penso che il benessere sia alla radice. Attaccarsi al benessere – “Ma, stiamo bene, non faccio figli perché devo comprare la villa, devo fare turismo, sto bene così, un figlio è un rischio, non si sa mai…”. Benessere e tranquillità ma è un essere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è piena di vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato nelle Filippine e a Cartagena in Colombia. La gente che alzava in alto i bambini come a dire “questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria, il mio orgoglio”. È il tesoro dei poveri, il bambino. Ma è il tesoro di una patria, di un Paese. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale, a Iasci, soprattutto quella nonna che faceva vedere il bambino: questo è il mio trionfo… Voi avete la sfida di educare questi giovani e di fare leggi per questi giovani, l’educazione in questo momento è prioritaria nel tuo Paese. È prioritario che si cresca avendo delle leggi sulla formazione. Il primo ministro di Mauritius mi aveva parlato di questo. Diceva di avere in mente la sfida di far crescere il sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo: è importante perché ci sono centri educativi di alto livello, ma a pagamento. I centri educativi ci sono in tutti i Paesi ma vanno moltiplicati perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi sull’educazione e la salute in questo momento sono la priorità lì.
Terzo punto, la xenofobia. Ho letto sui giornali di questo della xenofobia, ma non è un problema solo dell’Africa. È una malattia umana, come il morbillo… È una malattia che entra in un Paese, entra in un continente, e mettiamo muri. Ma i muri lasciano soli quelli che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangano dentro i muri rimarranno soli e alla fine della storia sconfitti per via di grandi invasioni. La xenofobia è una malattia. Una malattia “giustificabile” ad esempio per mantenere la purezza della razza, tanto per nominare una xenofobia del secolo scorso. E tante volte le xenofobie cavalcano l’onda dei populismi politici. Ho detto la settimana scorsa, o l’altra, che delle volte in alcuni posti sento fare discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. È come se in Europa ci fosse un pensiero di ritorno.
Ma anche voi in Africa avete un problema culturale che dovete risolvere. Ricordo di averne parlato in Kenya, il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, avvicinamento fra le diverse tribù per creare una nazione. Abbiamo commemorato il 25.mo della tragedia del Rwanda poco tempo fa: è un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi e darsi la mano e dire “no al tribalismo, no al tribalismo…” Dobbiamo dire no. Si tratta di una chiusura. E c’è anche una xenofobia domestica, ma comunque una xenofobia. Si deve lottare contro questo: sia la xenofobia di un Paese verso l’altro, sia la xenofobia interna, che nel caso di alcuni luoghi dell’Africa e con il tribalismo porta alla tragedia come quella del Rwanda».

Marie Fredeline Ratovoarivelo (Radio Don Bosco, Madagascar)
Lei ha parlato dell’avvenire dei giovani durante la sua visita apostolica, io penso che la fondazione di una famiglia è molto importante per il futuro. I giovani in Madagascar i giovani vivono in situazioni di famiglia molto complesse, a causa della povertà. Come può la Chiesa accompagnare i giovani di fronte al fatto che i suoi insegnamenti sono considerati superati e di fronte rivoluzione sessuale di oggi?

«La famiglia certamente ha la responsabilità dell’educazione dei figli. È stato toccante il modo di esprimersi dei giovani del Madagascar, lo abbiamo visto anche in Mauritius e pure con i giovani del Mozambico dell’incontro interreligioso per la pace. Dare dei valori ai giovani, farli crescere. In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà, alla mancanza di lavoro e tante volte anche allo sfruttamento del lavoro. Per esempio, nella cava di granito gli operai guadagnano un dollaro e mezzo al giorno… Sono fondamentali le leggi che tutelano il lavoro e la famiglia. E anche i valori familiari, che ci sono ma tante volte poi vengono distrutti dalla povertà: non i valori ma il poterli trasmettere e portare avanti l’educazione dei giovani. Abbiamo visto in Madagascar l’opera di Akamasoa, il lavoro che si fa con i più piccoli perché possano crescere in una famiglia che non è quella naturale, sì, ma è l’unica possibilità Ieri in Mauritius, dopo la Messa, ho trovato monsignor Rueda con un poliziotto, alto, grande, che teneva per mano una bambina, aveva due anni più o meno. Si era persa e piangeva perché non si trovavano i genitori. Era stato dato l’annuncio e intanto il poliziotto la accarezzava e lì ho visto (capito) il dramma di tanti bambini e giovani a cui capita di perdere il legame familiare benché vivano in una famiglia – in questo caso si era trattato di un incidente soltanto. E anche il ruolo dello Stato per proteggerli e portarli avanti. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani. E è un dovere dello Stato, un dovere portarli avanti. Poi, ripeto, per una famiglia avere un figlio è un tesoro. E voi avete questa coscienza, avete la coscienza del tesoro. Ma adesso è necessario che tutta la società abbia la coscienza di far crescere questo tesoro, per far crescere il Paese, far crescere la patria, far crescere i valori che daranno sovranità alla patria. Una cosa dei bambini che mi ha colpito in tutti e tre i Paesi è che la gente salutava. Cerano bambini piccolini che pure salutavano, erano nella gioia. Ma sulla gioia vorrei parlare dopo».

Jean Luc Mootoosamy (Radio One, Mauritius)
Il Primo ministro delle Mauritius l’ha ringraziata per la sua preoccupazione per la sofferenza dei nostri concittadini che sono stati costretti ad abbandonare il proprio arcipelago dal Regno Unito dopo l’illecito separazione di questa parte del nostro territorio prima dell’indipendenza. Oggi sull’isola di Diego Garcia c’è una base militare americana. Santo Padre, i chagossiani in esilio forzato da cinquant’anni vogliono tornare alla loro terra e le rispettive amministrazioni di Stati Uniti e Regno Unito non permettono che questo accada nonostante ci sia una risoluzione delle Nazioni Unite del maggio scorso. Come può lei sostenere la volontà dei chagossiani e aiutare il popolo di Chagos a tornare a casa?

«Io vorrei ripetere ciò che dice la Dottrina della Chiesa su questo. Le organizzazioni internazionali, quando noi le riconosciamo e attribuiamo loro la capacità di giudicare su scala mondiale – pensiamo al tribunale internazionale dell’Aja o alle Nazioni Unite – nel momento i cui fanno delle affermazioni se siamo un’umanità (un consesso civile) abbiamo il dovere obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità lo saranno per le nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali, per questo sono state create le Nazioni Unite, sono stati creati i tribunali internazionali. Poi c’è un altro fenomeno che però, lo dico chiaramente, non so se ha attinenza con questo caso. Quando arriva una liberazione di un popolo (un popolo ottiene l’indipendenza) e lo Stato dominante deve andare via – in Africa si sono verificati molti processi di indipendenza, dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall’Italia, tutti hanno dovuto lasciare, alcune sono maturate bene – ma in tutti c’è sempre la tentazione di andarsene con qualcosa in tasca: sì io dò la libertà a questo popolo ma qualche briciola me la porto… Do la libertà al Paese ma dal pavimento in su, il sottosuolo rimane mio. È un esempio, non so se è vero, ma per dire: sempre c’è quella tentazione… Io credo che le organizzazioni internazionali debbano fare un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto a quel Paese e riconoscendo la buona volontà di andare via e aiutandoli a lasciare totalmente, con libertà, in spirito di fratellanza. È un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto, sempre, e dobbiamo andare avanti rendendo forti le istituzioni internazionali: le Nazioni Unite che riprendano bene il loro ruolo, che l’Unione Europa sia più forte, non nel senso del dominio, ma nel senso della giustizia, della fratellanza, della unità per tutti. Questo credo sia una delle cose importanti. E c’è un’altra cosa che io vorrei approfittare per dire dopo il suo intervento. Oggi non ci sono colonizzazioni geografiche – almeno non tante… ma ci sono colonizzazioni ideologiche, che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiare quella coltura e omogeneizzare l’umanità. È l’immagine della globalizzazione come una sfera, tutti i punti equidistanti dal centro. Invece la vera globalizzazione non è una sfera, è un poliedro dove ogni popolo conserva la propria identità ma si unisce a tutta l’umanità. Invece la colonizzazione ideologica cerca di cancellare l’identità degli altri per farli uguali e ti vengono con proposte ideologiche che vanno contro la natura di quel popolo, la storia di quel popolo, contro i valori di quel popolo. E dobbiamo rispettare l’identità dei popoli, questa è una premessa da difendere sempre. Va rispettata l’identità dei popoli e così cacciamo via tutte le colonizzazioni.

Prima di dare la parola a EFE – che è privilegiata, è “vecchia”, ha 80 anni – io vorrei dire qualcosa di più sul viaggio che mi ha colpito tanto. Del tuo Paese mi ha colpito tanto la capacità di la capacità di unità interreligiosa, di dialogo interreligioso. Non si cancella la differenza delle religioni ma si sottolinea che tutti siamo fratelli, che tutti dobbiamo parlare. Questo è un segnale di maturità del tuo Paese. Parlando con il primo ministro ieri sono rimasto stupito di come loro, voi, abbiano elaborato questa realtà e la vivano come necessità di convivenza. C’è una commissione inter-cultuale che si raduna… La prima cosa che io ho trovato ieri entrando in episcopio – un aneddoto – è stata un mazzo di fiori bellissimo. Chi l’ha inviato? Il grande Imam. Si è fratelli, la fratellanza umana che è alla base e rispetta tutte le credenze. Il rispetto religioso è importante, per questo ai missionari dico di non fare proselitismi. Il proselitismo fale per il mondo della politica, dello sport – tifa per la mia squadra, per la tua… – ma non per la fede. Ma cosa significa per lei, Santo Padre, evangelizzare? C’è una frase di S. Francesco che mi ha illuminato tanto. Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: “Portate il Vangelo, se fosse necessario anche con le parole”. Cioè evangelizzare è quello che noi leggiamo nel libro degli Atti degli Apostoli: testimonianza. E quella testimonianza provoca la domanda: “Ma tu perché vivi così, perché fai questo?”. E lì spiego: “È per il Vangelo”. L’annuncio viene prima dalla testimonianza. Prima vivi come cristiano e se ti domandano parla. La testimonianza è il primo passo e il protagonista dell’evangelizzazione non è il missionario ma lo Spirito Santo che porta i cristiani e i missionari a dare testimonianza. Poi verranno le domande o non verranno, ma conta la testimonianza di vita. Questo è il primo passo. È importante per evitare il proselitismo. Quando vedete proposte religiose che seguono la strada del proselitismo, non sono cristiane. Cercano proseliti, non adoratori di Dio in verità. Io ne approfitto per sottolineare questa vostra esperienza interreligiosa che è tanto bella. Anche il primo ministro mi ha detto che quando uno chiede un aiuto uno, diamo lo stesso aiuto a tutti, e nessuno si offende, perché si sentono fratelli. E questo fa l’unità del Paese. È molto, molto importante. Anche negli incontri non solo c’erano cattolici, c’erano cristiani di atre confessioni, e c’erano musulmani, indù e tutti erano fratelli. Questo l’ho visto anche in Madagascar abbastanza e anche nell’Incontro interreligioso per la pace dei giovani, con giovani di diverse religioni che hanno voluto esprimere come vivono loro il desiderio per la pace. Pace, fraternità, convivenza interreligiosa, niente proselitismo, sono cose che dobbiamo imparare per la pace. Questa è una cosa che devo dire. Poi un’altra cosa che mi ha colpito – l’ho vista in tre Paesi ma faccio riferimento al Madagascar, siamo partiti di lì – il popolo, per le strade c’era il popolo, autoconvocato. Alla Messa allo stadio sotto la pioggia c’era il popolo, che danzava sotto la pioggia, era felice… E anche nella veglia notturna, la Messa – che dicono abbia sorpassato il milione, io non so, lo dicono le statistiche ufficiali, io vado un po’ sotto, diciamo 800 mila. Ma il numero non interessa, interessa il popolo, la gente che è andata a piedi dal pomeriggio prima, è stata alla veglia, ha dormito lì – io ho pensato a Rio de Janeiro nel 2013 (la Giornata Mondiale della Gioventù, ndr) che dormivano sulla spiaggia – era il popolo che voleva stare col Papa. Io mi sono sentito umile, piccolissimo davanti ala grandezza della sovranità popolare. È qual è il segno che un gruppo di gente è popolo? La gioia. C’erano poveri, c’era gente che non aveva mangiato quel pomeriggio per stare lì, erano gioiosi. Invece quando le persone o i gruppi si staccano dal quel senso popolare della gioia, la perdono. È uno dei primi segnali, la tristezza dei soli, la tristezza di coloro che hanno dimenticato le loro radici culturali. Avere coscienza di essere un popolo è avere coscienza di avere una identità, di avere una coscienza, di avere modo di capire la realtà e questo accomuna la gente. Ma il segnale che tu sei nel popolo e non in una élite, è la gioia, la gioia comune. Questo ho voluto sottolinearlo. E per questo i bambini salutavano così, perché i genitori li contagiavano con la gioia».


Cristina Cabrejas (dell’agenzia spagnola EFE che celebra gli ottant’anni dalla fondazione)
Prima di tutto diamo per con consolidato che uno dei suoi piani futuri è venire in Spagna, e speriamo sia possibile. La prima domanda che voglio farle: per questi ottant’anni di EFE abbiamo domandato a diverse persone, a leader mondiali: come crede che sarà l’informazione del futuro?

«Avrei bisogno della palla di cristallo… Ci andrò in Spagna, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è per i Paesi piccoli, poi i più grandi. Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso come era per esempio la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza tv, con la radio col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno, si vendeva di notte con i volontari… e anche orale. Se facciamo il paragone con questa, era una informazione precaria e questa di oggi sarà forse precaria rispetto a quella del futuro. Quello che rimane come costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, e di distinguerlo dal racconto, dal riportato. Una delle cose che danneggia la comunicazione, del passato, del presente e del futuro è ciò che viene riportato. C’è uno studio molto bello, uscito tre anni fa, di Simone Paganini, una studiosa di linguistica dell’Università di Aquisgrana e parla del movimento della comunicazione tra lo scrittore, lo scritto e il lettore. Sempre la comunicazione rischia di passare dal fatto al riportato e questo rovina la comunicazione. È importante che sia il fatto e sempre avvicinarsi al fatto. Anche nella Curia lo vedo: c’è un fatto e poi ognuno lo addobba mettendoci del suo, senza cattiva intenzione, questa è la dinamica. Dunque l’ascesi del comunicatore è sempre di tornare al fatto, riportare il fatto, e poi dire la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo, distinguendo il fatto da ciò che viene riportato. Tempo fa mi hanno raccontato la storia di Cappuccetto Rosso ma sulla base di ciò che veniva riportato, e terminava con Cappuccetto rosso e la nonna che mettevano il lupo in pentola e lo mangiavano il lupo. Il racconto cambiava le cose. Qualsiasi sia il mezzo di comunicazione, la garanzia è la fedeltà: “dice che” si può usare? Sì, si può usare nella comunicazione ma stando sempre all’erta per constatare l’obiettività del “si dice che…”. È uno dei valori che bisogna perseguire nella comunicazione. In secondo luogo, la comunicazione deve essere umana, e nel dire umana intendo costruttiva, cioè deve far crescere l’altro. Una comunicazione non \può essere usata come uno strumento di guerra, perché è anti-umana, distrugge. Poco fa ho passato un articolo a padre Rueda che ho trovato una rivista, che si intitolava: le gocce di arsenico della lingua. La comunicazione deve stare al servizio della costruzione, non della distruzione. Quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo alla propaganda delle dittature del secolo passato, erano dittature che sapevano comunicare bene, ma fomentano la guerra, le divisioni e la distruzione. non so che cosa dire tecnicamente perché non sono ferrato nella materia. Ho voluto sottolineare dei valori ai quali la comunicazione di qualsiasi mezzo, deve mantenersi sempre di mantenersi coerente».

Cristina Cabrejas (seconda domanda)
Passiamo al viaggio. Uno dei temi di questo viaggio è stata la protezione dell’ambiente, degli alberi, minacciati dalla deforestazione e dagli incendi. In questo momento sta accadendo in Amazzonia. Lei pensa che i governi di queste aree stanno facendo di tutto per proteggere questo polmone del mondo?

«Torno sull’Africa. L’ho già detto in un altro viaggio, c’è nell’inconscio collettivo un motto: l’Africa va sfruttata. Noi non pensiamo mai: l’Europa va sfruttata. Dobbiamo liberare l’umanità da questo inconscio collettivo. Il punto più forte dello sfruttamento è sull’ambiente, con la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa, ho ricevuto i cappellani del mare e all’udienza c’erano sette ragazzi pescatori che pescavano con una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici come si fa adesso, un po’ avventurieri. Mi hanno detto: in alcuni mesi abbiamo preso 6 tonnellate di plastica… In Vaticano abbiamo proibito la plastica, stiamo in questo lavoro. Questa è una realtà soltanto dei mari. L’intenzione di preghiera di questo mese è proprio la protezione degli oceani, che ci danno anche l’ossigeno che respiriamo. Poi ci sono i grandi polmoni, in Centro Africa, tutta la zona Panamazzonica, e poi altri più piccoli. Bisogna difendere l’ecologia, la biodiversità, che è la nostra vita, difendere l’ossigeno, che è la nostra vita. A me conforta che a portare avanti questa lotta siano i giovani, che hanno una grande coscienza e dicono: il futuro è nostro, col tuo fa quello che vuoi, ma non col nostro! Credo che essere arrivati all’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono, e poi anche gli altri… Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. Ma l’anno scorso d’estate, quando ho visto quella foto della nave che navigava al Polo Nord come se niente fosse, ho sentito angoscia, e poco tempo fa abbiamo visto tutti la fotografia dell’atto funebre simbolico per quel ghiacciaio che non c’era più in Groenlandia. … Tutto questo avviene fretta, dobbiamo prendere coscienza cominciando dalle cose piccole. I governanti stanno facendo tutto? Alcuni di più, alcuni di meno. È vero che c’è una parola che devo dire e che sta alla base dello sfruttamento ambientale. Io sono rimasto commosso dall’articolo sul Messaggero di Franca (Giansoldati, ndr), che non ha risparmiato parole e ha parlato di manovre distruttive e di rapacità, e questo non solo in Africa ma anche nelle nostre città, nelle nostre civiltà. E la parola brutta brutta è corruzione: io ho bisogno di fare questo e per farlo devo deforestare e ho bisogno del permesso del governo o del governo provinciale. Vado dal responsabile – e qui ripeto letteralmente ciò che mi ha detto un imprenditore spagnolo – e la domanda che noi sentiamo dire quando vogliamo far approvare il progetto è “Quanto per me?”, sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina e anche in Europa. Dappertutto, quando si prende la responsabilità socio-politica come un guadagno personale, lì si sfruttano valori, la natura, la gente. L’Africa va sfruttata… Ma pensiamo a tanti operai che sono sfruttati nelle nostre società; il caporalato lo abbiamo in Europa, non l’hanno inventato gli africani. La domestica pagata un terzo di quello che si deve, non l’hanno inventato gli africani, le donne ingannate e sfruttate per la prostituzione nel centro delle nostre città, non l’hanno inventato gli africani. Anche da noi c’è questo sfruttamento, non solo ambientale, anche umano. E questo è per corruzione. E quando la corruzione è dentro nel cuore, prepariamoci, perché arriva di tutto.

Jeason Drew Horowitz (The New York Times, Stati Uniti)
Nel volo verso Maputo lei ha riconosciuto di essere sotto attacco di un settore della Chiesa americana, ovviamente ci sono forti critiche da alcuni vescovi e cardinali, ci sono tv cattoliche e siti web americani molto critici, e persino alcuni dei suoi alleati più stretti hanno parlato di un complotto contro di lei. C’è qualcosa che questi critici non capiscono del suo pontificato? C’è qualcosa che lei ha imparato dalle critiche? Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? E se sì, c’è qualcosa che lei potrebbe fare – un dialogo – per evitarlo?

«Prima di tutto, le critiche sempre aiutano, sempre. Quando uno riceve una critica subito deve fare l’autocritica e dire: questo è vero o non vero? Fino a che punto? E io sempre dalle critiche traggo vantaggi. A volte ti fanno arrabbiare… Ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata a Maputo uno di voi mi ha dato quel libro in francese su come gli americani vogliono cambiare il Papa. Sapevo di quel libro, ma non l’avevo letto. Le critiche non sono soltanto degli americani, ci sono un po’ dappertutto, anche in Curia. Almeno quelli che le dicono hanno il vantaggio dell’onestà di dirle. A me non piace quando le critiche stanno sotto il tavolo: ti fanno un sorriso facendo vedere i denti e poi ti danno il pugnale da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica è un elemento di costruzione, e se la tua critica non è giusta, tu stai preparato a ricevere la risposta e fare un dialogo e arrivare a un punto giusto. Questa è la dinamica della critica vera. Invece la critica delle pillole di arsenico, di cui parlavamo a proposito di questo articolo che ho dato a padre Rueda, è un po’ buttare la pietra e nascondere la mano… Questo non serve, non aiuta. Aiuta ai piccoli gruppetti chiusi, che non vogliono sentire la risposta alla critica. Invece una critica leale – io penso questo, questo e questo – è aperta alla risposta, questo costruisce, aiuta. Davanti al caso del Papa: questo del Papa non mi piace, lo critico, parlo, faccio un articolo e gli chiedo di rispondere, questo è leale. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non voler bene alla Chiesa, è andare dietro a un’idea fissa, cambiare il Papa, o fare uno scisma. Questo è chiaro: sempre una critica leale è ben ricevuta, almeno da me. Secondo, il problema dello scisma: nella Chiesa ci sono stati tanti di scismi. Dopo il Vaticano I, ad esempio, l’ultima votazione, quella dell’infallibilità, un bel gruppo n’è andato e ha fondato i Vetero-cattolici per essere proprio “onesti” verso la tradizione della Chiesa. Poi loro hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno le ordinazioni delle donne. Ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro un’ortodossia e pensavano che il concilio avesse sbagliato. Un altro gruppo se n’è andato zitti zitti, ma non hanno voluto votare… Il Vaticano II ha avuto tra le conseguenze queste cose. Forse il distacco post-conciliare più conosciuto è quello di Lefebvre. Sempre c’è l’opzione scismatica nella Chiesa, sempre. Ma è una delle opzioni che il Signore lascia alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è in gioco la salute spirituale di tanta gente. Che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino dello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, come ha cominciato con tanti scismi, uno dietro l’altro: ariani, gnostici, monofisiti… Poi mi viene di raccontare un aneddoto: è stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici sempre hanno una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando nel Concilio di Efeso c’era la discussione sulla maternità divina di Maria, il popolo – questo è storico – era all’entrata della cattedrale quando i vescovi entravano per fare il concilio. Erano lì con dei bastoni. Li facevano vedere ai vescovi e gridavano “Madre di Dio! Madre di Dio!”, come per dire: se non fate questo vi aspettano… Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma sempre è un distacco elitario provocato da un’ideologia staccata dalla dottrina. È un’ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca… Per questo prego perché non siano degli scismi, ma non ho paura. Questo è un risultato del Vaticano II, non di questo o di quell’altro Papa. Per esempio le cose sociali che dico, sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse! Io copio lui. Ma dicono: il Papa è comunista… Entrano delle ideologie nella dottrina e quando la dottrina scivola nelle ideologie, lì c’è la possibilità di uno scisma. C’è l’ideologia della primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. I pastori devono condurre il gregge tra la grazia e il peccato, perché la morale evangelica è questa. Invece una morale di un’ideologia così pelagiana ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro al Chiesa, che non sono scismi ma vie cristiane pseudo scismatiche, che finiranno male. Quando voi vedete cristiani, vescovi, sacerdoti rigidi, dietro ci sono dei problemi, non c’è la santità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, stanno passando un problema, dobbiamo accompagnarli con mitezza»

Aura Vistas Miguel (Radio Renascença, Portogallo)
Noi sappiamo che a lei non piace visitare Paesi durante la campagna elettorale, eppure lo ha fatto in Mozambico, a un mese dalle elezioni, essendo il presidente che l’ha invitata uno dei candidati. Come mai?

«Sì. Non è stato uno sbaglio, è stata un’opzione decisa liberamente, perché la campagna elettorale incomincia in questi giorni e passava in secondo piano rispetto al processo di pace. L’importante era aiutare a consolidare questo processo. E questo è più importante di una campagna che ancora non è incominciata. Facendo il bilancio tra le due cose, bisognava consolidare il processo di pace. E poi ho incontrato anche i due avversari politici, per sottolineare che l’importante era quello, e non fare il tifo per il presidente ma sottolineare l’unità del Paese. Quello che dice lei è però vero: dobbiamo staccarci un po’ dalle campagne elettorali».

(Trascrizione non ufficiale a cura di Alessandro De Carolis e Andrea Tornielli)

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