La minoranza cattolica in Myanmar continua a chiedere a Papa Francesco, che visiterà il Paese dal 27 al 30 novembre per poi recarsi in Bangladesh fino al 2 novembre, di non nominare la parola “Rohingya” perché potrebbe avere conseguenze negative sulla vita della piccola comunità e sugli equilibri interni della fragile democrazia nascente.
L’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha incontrato nella capitale Naypyidaw, durante il vertice Asia-Europa, la leader de facto Aung San Suu Kyi, dicendosi fiduciosa sul ritorno a casa dei rifugiati in Bangladesh, almeno di quelli identificati come veri Rohingya. I gesuiti locali sperano in un incontro privato con Papa Francesco il 29 novembre.
(da Yangon) – La visita di Papa Francesco non sarà facile, lo si intuisce ovunque. La minoranza cattolica in Myanmar continua a chiedere a Papa Francesco, che visiterà il Paese dal 27 al 30 novembre per poi recarsi in Bangladesh fino al 2 novembre, di non nominare la parola “Rohingya” perché potrebbe avere conseguenze negative sulla vita della piccola comunità e sugli equilibri interni della fragile democrazia nascente. Sulle tensioni nello Stato del Rakhine si stanno giocando infatti delicati equilibri interni, complicati dalle pressioni internazionali. Non a caso ieri, 20 novembre, l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha incontrato nella capitale Naypyidaw, durante il vertice Asia-Europa, la leader de facto Aung San Suu Kyi. Mogherini ha definito il dialogo “estremamente incoraggiante” e si è detta fiduciosa sul ritorno a casa dei rifugiati in Bangladesh, almeno di quelli identificati come veri Rohingya. Ma c’è un grosso problema legato alla mancanza di documenti d’identità: tra i governi di Bangladesh e Myanmar c’è infatti un vecchio contenzioso, e Yangon teme che molti di questi sfollati siano bengalesi, con il rischio di infiltrazioni terroristiche. Ma in questi giorni la stampa locale parla di una negoziazione in atto tra i due governi e di una mediazione da parte della Cina.
I gesuiti: “argomento sensibile”. “È un argomento sensibile e potrebbe creare intolleranze – confermano fonti locali legate ai gesuiti -. Siamo convinti che il Papa saprà come affrontare il tema e decidere secondo la sua coscienza. Saprà cosa dire e cosa non dire”. In un Paese in cui l’85% degli oltre 52 milioni di abitanti pratica il buddismo theravada e ci sono ancora tensioni con alcuni dei 135 gruppi etnici negli Stati di frontiera, bisogna tener presente che anche i 700.000 cattolici sono una minoranza. Impegnati come sono nel sociale, i gesuiti del Myanmar ci tengono molto ad aiutare i rifugiati, le famiglie in difficoltà, i giovani, ad investire nell’educazione per far crescere il loro Paese che, per la prima volta dopo 54 anni di regime militare, con la vittoria del partito della leader de facto e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha ritrovato la speranza. La crisi nello Stato interno del Rakhine – da dove provengono i 620.000 rifugiati musulmani Rohingya fuggiti in Bangladesh in seguito alle violenze dell’esercito – ha però inasprito ulteriormente la situazione. Tramite il Jesuit Refugee Service sono coinvolti nell’assistenza agli sfollati Rohingya a Cox’s Bazar, dove Caritas Bangladesh sostiene 29.000 famiglie. “Noi vogliamo continuare a prenderci cura dei rifugiati e di chi soffre – affermano – e allo stesso tempo mantenere in vita questo governo: perché se si critica la democrazia l’esercito può trarne vantaggio per riprendersi il potere”.
Visita del Papa: atteso un fuori programma il 29 novembre. In Myanmar le vocazioni tra i gesuiti sono in crescita: attualmente ci sono almeno una trentina di giovani seminaristi e il clero locale non vede l’ora di incontrare il proprio confratello e Pontefice. Anticipano al Sir che sperano in
un incontro privato tra gesuiti il 29 novembre, come spesso accade durante i viaggi papali.
A Yangon i gesuiti lavorano in uno slum molto povero e in quartiere musulmano, dove hanno ricostruito finora 600 case distrutte dal ciclone Nargis nel 2008. Si occupano principalmente di educazione, formando giovani in collegi e accademie senza distinzioni di etnia e religione. Tra loro vi sono anche musulmani Rohingya e la convivenza procede serenamente.
Un terzo dei 10.0000 rifugiati del Kayak potrebbero tornare a casa. Sembra invece stia migliorando la situazione per i 10.000 rifugiati della minoranza karenni dello Stato Kayak: vivono in due campi profughi al di là della frontiera con la Thailandia. Fuggiti alla fine degli anni ’90 a causa del conflitto tra la loro guerriglia e l’esercito, dal 2012 sono iniziati una serie di colloqui di pace con accordi per il cessate-il-fuoco. “Ora la situazione nello Stato del Kayak è più stabile, c’è più libertà di movimento, più educazione e servizi sanitari – dice una fonte locale che lavora nelle organizzazioni internazionali -: lasceremo alle persone la possibilità di decidere se rimanere in Thailandia o tornare in Myanmar. Almeno un terzo di loro potrebbero rientrare”. Per tutti i cattolici birmani che stanno iniziando il conto alla rovescia in attesa di vedere il Papa (i momenti pubblici più importanti saranno trasmetti in diretta anche dalla tv di Stato),la speranza più grande è “che porti un messaggio di pace, amore e unità per la crescita di tutto il Paese.
La sua umiltà e gentilezza, la sua testimonianza sarà di grande aiuto per tutti noi. Può insegnarci ad accettarci gli uni gli altri per ciò che siamo, indipendentemente dall’appartenenza religiosa o etnica”. Con tante aspettative sulle possibili ricadute nella vita pratica di tutti i giorni, oggi molto complicata, soprattutto per le minoranze, da burocrazie, divieti e discriminazioni. “Siamo stati chiusi per decenni, indagati, seguiti.
Ora speriamo di poterci aprire al mondo”.
Fonte agensir.it
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