C’è grande l’attesa in Terra Santa per il «pellegrinaggio» di Papa Francesco il 24 e 26 di maggio. A guardare a quei giorni sono soprattutto le comunità cristiane, sempre più ridotte in numero. «Il Papa troverà una comunità schiacciata tra ebrei e musulmani: i cristiani se ne vanno perché non hanno futuro e spazio», spiega a tempi.it Franco Pisano, che per anni, come vaticanista all’Ansa, ha accompagnato nei loro viaggi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, partecipando anche alle visite in Israele. «Di fatto – prosegue Pisano – i cristiani sono sempre meno, anche perché l’islam si caratterizza sempre più come un elemento arabo. Anni fa la distinzione era tra arabi e israeliani, ma tra gli arabi si poteva contare una maggioranza musulmana e una minoranza cristiana. Ora invece la componente islamica è quasi totale».
Pisano, cosa c’è da aspettarsi dal viaggio di Francesco in Terra Santa?
Anzitutto è importante ricordare la motivazione ufficiale: Bergoglio va in Israele per ricordare il primo incontro che ci fu tra un cattolico e il massimo esponente dell’ortodossia, ossia la visita che Paolo VI fece cinquant’anni fa ad Atenagora. Quel fatto fu molto importante, perché cambiò i rapporti con quella parte dell’ortodossia che fa capo al patriarcato di Costantinopoli. Non a caso Francesco e Bartolomeo si incontreranno quattro volte, e hanno anche annunciata una dichiarazione comune: difficile capire cosa diranno, ma dubito andranno lì a firmare un pezzo di carta.
Per quanto riguarda il dialogo con gli ebrei, abbiamo ancora in mente il viaggio di papa Giovanni Paolo II e il suo biglietto nelle fessure del Muro del pianto, poche settimane dopo aver chiesto scusa per le sofferenze che i cristiani fecero patire agli ebrei.
Sì, nei rapporti inter-religiosi quell’incontro, e più in generale il Pontificato di Wojtyla, hanno segnato un ravvicinamento importante. Pochi anni prima Giovanni Paolo II era andato in visita alla Sinagoga di Roma, il primo Papa a farlo dopo San Pietro. Il gesto ebbe un certo rilievo, per questo era un Papa ben visto dagli ebrei: il biglietto che inserì nelle fessure del Muro del pianto era il brano di preghiera che riguardava gli ebrei. Il papa polacco arrivava lì dalla Polonia, per certi aspetti con una storia di sofferenza che aveva accomunato il suo popolo agli ebrei. Tutti i gesti di quell’incontro, come quando appoggiò la mano in quel modo al Muro del pianto, furono importanti perché espressero, al di là delle parole, un affetto sincero. Certo, anche le parole non vanno trascurate. L’espressione con cui li chiamò «fratelli maggiori» nella visita di Roma, ancora oggi la ricordiamo.
Un affetto che si è intensificato sotto il papato di Benedetto XVI.
Sì sicuramente, e la cosa può sembrare strana: se il polacco aveva avuto un “passato di vittima” simile a quello degli ebrei, il tedesco, a prima vista, veniva da una storia che invece lo metteva dalla parte dei persecutori. Ma la stoffa teologica di Ratzinger fu molto apprezzata a Gerusalemme. Non a caso il suo ritiro, un anno fa, è stato visto come la perdita di un amico: in Israele i giornali locali parlavano benissimo di Benedetto XVI perché da teologo seppe affrontare in maniera approfondita tematiche cruciali del rapporto ebrei-cristiani.
Ad esempio?
Ci furono vari momenti di incontro in cui usò ampi passi del Levitico, del Pentateuco. Gli usava facendoli suoi, sottolineando così che quei brani erano una cosa comune tra ebrei e cristiani. Nessuno ha mai detto il contrario, però è ancora più significativa la sottolineatura che può fare un Papa che incontra gli ebrei e si rifà ad un passo così caro a chi ha davanti. Significava attingere alla tradizione degli ebrei, andando a pescare quel che davvero poteva essere condiviso. Adesso c’è il viaggio di Francesco: Bergoglio ha un passato personale di amicizia con ebrei dell’Argentina, in particolare col rabbino argentino Skorka che lo accompagnerà in Terra Santa. Dato il carattere c’è da aspettarsi qualche gesto significativo.
Papa Francesco si recherà in terra Santa «da pellegrino».
Questo è un atteggiamento comune a tutti i pontefici. Ogni Papa, prima di essere vicario di Cristo, è un cristiano. È segno dello spirito con cui affronta il viaggio: anche se si tende a evidenziare quasi solo il ruolo politico di Stato, i Papi, invece, hanno sempre fatto emergere che a Gerusalemme vanno come fedeli qualunque. È lo spirito di un pellegrinaggio, l’andare alle radici a chiedere.
In particolare la Terra Santa è il luogo del Dio storico, dove si ha la percezione fisica della sua vita. Quanto conta questo aspetto per un Papa che continua a richiamare all’essenzialità della fede?
È una dimostrazione pratica della sua affermazione. Purtroppo ci sono state in questi giorni alcune polemiche, legate cioè al Cenacolo e le sue origini. È 14 anni che se ne parla: da tempo sembra che Israele voglia cederlo in qualche modo al mondo cattolico, rimanendone comunque proprietario, ma alla fine non si riesce ad arrivare ad una formula. Non succederà purtroppo, e questo è un aspetto deludente. Con Giovanni Paolo II pareva che le parti si fossero avvicinate, invece poi non accadde più nulla. La cosa più grave è che gli ebrei oltranzisti non permettono che si dica Messa lì neanche ora che arriva il Papa, nel posto dove di fatto è stata istituita la Messa.
Al di là delle valenze politiche, il viaggio del Papa nella terra di Gesù è anche l’abbraccio alle comunità del Medio Oriente, sempre più schiacciate nei rispettivi Paesi. Come ricorda l’attesa di quelle comunità incontrate dai Papi?
Ovviamente l’attesa è sempre stata grande. Se da noi ci sono 50mila persone in piazza per l’Angelus quasi ogni domenica, lì quando arriva il Papa ce ne sono 500. Ma questi viaggi sono occasione di riscatto per questa gente, quasi la possibilità di sentire fisicamente il sostegno del cristianesimo e del cattolicesimo mondiale. di Emmanuele Michela Tempi.it