Nel tradizionale incontro per gli auguri di Natale Francesco parla alla Curia Romana delle trasformazioni in atto nelle istituzioni vaticane, ribadendo necessità e scopi dei nuovi dicasteri. Cambiamo, dice il Papa, per vincere rigidità e paure e annunciare meglio il Vangelo a un mondo scristianizzato
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Nel mondo che cambia, la Curia Romana non cambia tanto per farlo, “per seguire le mode”. Sviluppo e crescita la Chiesa li vive dalla prospettiva di Dio e del resto la storia della Bibbia è tutto “un cammino segnato da avvii e ripartenze”. Ecco perché anche uno dei nuovi Santi, il cardinale Newman, quando parlava di “cambiamento” in realtà intendeva “conversione”.
Prima di portare il discorso sull’argomento che gli sta a cuore, Francesco prepara l’uditorio schierato in Sala Clementina per gli auguri di Natale – tutti i suoi primi collaboratori della Curia romana – a sintonizzarsi su una convinzione che sottende e accompagna fin dall’inizio il suo magistero, ovvero che quella attuale “non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca”. Aggiungendo che “l’atteggiamento sano” è quello di “lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente”, con discernimento e coraggio, piuttosto che farsi sedurre dalla comoda inerzia del lasciare tutto com’è:
Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
L’articolata premessa approda al tema della riforma della Curia romana che, sostiene il Papa, “non ha mai avuto la presunzione di fare come se prima niente fosse esistito”, ma ha puntato al contrario “a valorizzare quanto di buono è stato fatto nella complessa storia della Curia”.
È doveroso valorizzarne la storia per costruire un futuro che abbia basi solide, che abbia radici e perciò possa essere fecondo. Appellarsi alla memoria non vuol dire ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica per sua natura movimento. E la tradizione non è statica, è dinamica, è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri.
“La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune, facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio.”
A questo punto Francesco passa in rassegna quelle che definisce “alcune novità dell’organizzazione curiale, come la nascita a fine 2017 della Terza Sezione della Segreteria di Stato (Sezione per il Personale di ruolo diplomatico della Santa Sede – ndr), assieme ad altri mutamenti intervenuti, ricorda, nelle “relazioni tra Curia romana e Chiese particolari” e nella “struttura di alcuni Dicasteri, in particolare quello per le Chiese Orientali e altri per il dialogo ecumenico e per quello interreligioso, in particolare con l’Ebraismo”. Ma è stata soprattutto la constatazione – già evidente già al tempo di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI – cioè di un mondo non più cosciente del Vangelo come in passato, a richiedere, spiega Francesco, ristrutturazioni profonde di dicasteri storici o a suggerire la nascita di nuovi.
Riferendosi alla Congregazione per la Dottrina della Fede e alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, il Papa osserva che quando “furono istituite, si era in un’epoca nella quale era più semplice distinguere tra due versanti abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra”.
Adesso questa situazione non esiste più. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: non siamo nella cristianità, non più!
Per questo, a rimodellare le istituzioni vaticane è stata la spinta a un rinnovato annuncio del Vangelo. Tutto – consuetudini, stili, orari, linguaggio, aveva già chiarito il Papa nell’Evangelii gaudium – dev’essere “un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione”. A questo bisogno risponde, asserisce Francesco, la nascita del Dicastero per la Comunicazione, entità che accorpa nove enti dei media vaticani prima distinti fra loro. Non un mero “raggruppamento coordinativo”, precisa, ma un modo di “armonizzare” per “produrre una migliore offerta di servizi” in una “cultura ampiamente digitalizzata”.
La nuova cultura, marcata da fattori di convergenza e multimedialità, ha bisogno di una risposta adeguata da parte della Sede Apostolica nell’ambito della comunicazione. Oggi, rispetto ai servizi diversificati, prevale la forma multimediale, e questo segna anche il modo di concepirli, di pensarli e di attuarli. Tutto ciò implica, insieme al cambiamento culturale, una conversione istituzionale e personale per passare da un lavoro a compartimenti stagni – che nei casi migliori aveva qualche coordinamento – a un lavoro intrinsecamente connesso, in sinergia.
Analoga sorte è quella toccata al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, creato per rendere più coerente e unitario il lavoro prima distinto tra i Pontifici Consigli di Giustizia e Pace, Cor Unum, Pastorale dei Migranti e Operatori Sanitari.
La Chiesa è dunque chiamata a ricordare a tutti che non si tratta solo di questioni sociali o migratorie ma di persone umane, di fratelli e sorelle che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata. È chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è “straniero” o “escluso”. È chiamata a svegliare le coscienze assopite nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per molti, troppi, un cimitero.
Tra “grandi sfide” e “necessari equilibri”, dunque, ciò che conta è che la Chiesa, e la Curia romana per prima, guardi all’umanità in cui tutti sono “figli di un unico Padre”. Francesco non misconosce la difficoltà di cambiamenti così grandi, il bisogno della gradualità, “l’errore umano”, con i quali, dice, “non è possibile né giusto non fare i conti”. “Legata a questo difficile processo storico, c’è sempre – stigmatizza – la tentazione di ripiegarsi sul passato (anche usando formulazioni nuove), perché più rassicurante, conosciuto e, sicuramente, meno conflittuale”.
Qui occorre mettere in guardia dalla tentazione di assumere l’atteggiamento della rigidità. La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune, facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio. Ricordiamo sempre che dietro ogni rigidità giace qualche squilibrio. La rigidità e lo squilibro si alimentano a vicenda in un circolo vizioso ed oggi questa tentazione della rigidità è diventata tanto attuale
L’ultima parola, il Papa la lascia al cardinale Martini che, sul punto di morte, affermò: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. […] Solo l’amore vince la stanchezza”.
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