La sintesi dell’incontro del Papa con la comunità ebrea della Slovacchia
(Salvatore Cernuzio) Entra a capo chino, incedendo lentamente, Papa Francesco, nella Piazza Rybné námestie di Bratislava. La “Piazza dei Pesci”, luogo di storia e di memoria per l’intera Slovacchia; luogo di dolore per la comunità ebraica che qui, dinanzi al Memoriale bronzeo che commemora le vittime della Shoah, sotto l’ombra della scritta “Zachor” (in ebraico “ricorda!”), piange i propri cari spazzati via dalla furia nazista. A questa comunità, dimezzata dopo la Seconda Guerra mondiale, il Papa si presenta “come pellegrino”, venuto “per toccare questo luogo ed esserne toccato”. e nel suo discorso, lancia, come ieri a Budapest, un grido contro ogni forma di antisemitismo e perché non si ripeta mai più la “profanazione” dell’immagine di Dio, quegli atti disumani perpetrati, allora e ancora oggi, contro la persona umana.
Francesco si muove tra passato e futuro nel suo discorso, pronunciato dal palco allestito sotto un tendone bianco che ripara dal sole. Le sue parole seguono quelle di benvenuto del presidente dell’Unione Centrale delle Comunità Religiose Ebraiche nella Repubblica Slovacca, Richard Duda, e a due testimonianze. Anzitutto quella commovente di un sopravvissuto, il professor Thomas Frankl, che racconta la drammatica epopea vissuta dalla sua famiglia, dalla deportazione alla liberazione, e ricorda pure il grande lavoro compiuto dall’allora incaricato d’Affari della Nunziatura in Slovacchia, monsignor Giuseppe Burzio, “che instancabilmente cercò di fermare l’antisemitismo del regime micidiale di quell’epoca”, laddove “nessun politico slovacco si oppose allora apertamente al regime”. Interviene poi suor Samuela, della Congregazione delle Orsoline, ricordando che, negli anni della persecuzione, il suo ordine aiutò bambini ebrei nascondendoli e facendoli fuggire dal Paese, come ricostruito attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti.
Prendendo la parola, il Papa rammenta anzitutto l’importanza della Piazza che, dice, “mantiene vivo il ricordo di un ricco passato”: per secoli parte del quartiere ebraico, qui lavorò anche il celebre rabbino Chatam Sofer e vi sorgeva la sinagoga Neolog, accanto alla Cattedrale dell’Incoronazione. Già attraverso l’architettura si esprimeva “la pacifica convivenza delle due comunità, simbolo raro e di grande portata evocativa, segno stupendo di unità nel nome del Dio dei nostri padri”, osserva il Papa.
Qui avverto anch’io il bisogno, come tanti di loro, di ‘togliermi i sandali’, perché mi trovo in un luogo benedetto dalla fraternità degli uomini nel nome dell’Altissimo
E proprio il nome di Dio è stato “disonorato” con la “follia dell’odio”, durante il secondo conflitto mondiale che vide la morte di 105 mila ebrei slovacchi, deportati e sterminati nei lager nazisti. “Quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita”, ricorda il Papa. Fu il regime comunista a demolire l’edificio di culto nel 1969, insieme all’intero ghetto, per far posto al Ponte dell’Insurrezione nazionale slovacca, noto anche come Ponte Nuovo.
Sta scritto: “Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri.
Davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da un affronto tragico e inenarrabile, il Papa ammette quindi con “vergogna”: “Quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: ‘Dio è con noi’; ma erano loro a non essere con Dio”.
“La vostra storia è la nostra storia, i vostri dolori sono i nostri dolori”, aggiunge Francesco, volgendo lo sguardo verso il Memoriale, alto cinque metri sulla cui sommità svetta la Stella di David. “La memoria non può e non deve cedere il posto all’oblio, perché non ci sarà un’alba duratura di fraternità senza aver prima condiviso e dissipato le oscurità della notte”. “Questo – afferma il Pontefice – è per noi il tempo in cui non si può più oscurare l’immagine di Dio che risplende nell’uomo”. Bisogna aiutarsi in questo, specie in un tempo in cui “non mancano idoli vani e falsi che disonorano il nome dell’Altissimo”. Sono il potere e il denaro “che prevalgono sulla dignità dell’uomo”, l’indifferenza di chi “gira lo sguardo dall’altra parte”, le manipolazioni “che strumentalizzano la religione, facendone questione di supremazia oppure riducendola all’irrilevanza”. E ancora, rimarca il Papa, “la dimenticanza del passato, l’ignoranza che giustifica tutto, la rabbia e l’odio”.
In mezzo ai ricordi di tanto male, a Rybné námestie brilla però una luce di speranza. “Qui ogni anno venite ad accendere la prima luce sul candelabro della Chanukia. Così, nell’oscurità, appare il messaggio che non sono la distruzione e la morte ad avere l’ultima parola, ma il rinnovamento e la vita”, scandisce il Papa. E se la sinagoga è stata demolita, “la comunità è ancora presente” ed “è viva e aperta al dialogo”. “Qui le nostre storie si incontrano di nuovo. Qui insieme affermiamo davanti a Dio la volontà di proseguire nel cammino di avvicinamento e di amicizia”. In proposito, il Papa spiega di conservare il ricordo dell’incontro a Roma nel 2017 con le comunità ebraiche e si dice lieto che in seguito sia stata istituita una Commissione per il dialogo con la Chiesa cattolica. “È bene condividere e comunicare ciò che unisce. Ed è bene proseguire, nella verità e con sincerità, nel percorso fraterno di purificazione della memoria per risanare le ferite passate, così come nel ricordo del bene ricevuto e offerto”.
Francesco cita quindi il Talmud:
“Ognuno conta”, afferma, ringraziando per le porte aperte da entrambe le parti: un simbolo per il mondo di oggi che “ha bisogno di porte aperte”.
In terra slovacca, “terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud”, sussurra infine Francesco, la comunità ebraica continui ad essere “segno di benedizione per tutte le famiglie della terra”. Da qui, l’esortazione ad essere “sempre, insieme, testimoni di pace”, in mezzo alla “tanta discordia che inquina il nostro mondo”. “Shalom!”.
L’incontro si conclude con l’accensione di alcune candele in memoria delle vittime dell’Olocausto e l’intonazione di un Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche. Francesco ascolta assorto e ad occhi chiusi questo canto in cui si nominano i campi di sterminio di Auschwitz, Mathausen, Treblinka e si ricordano pure i numerosi Giusti delle Nazioni che hanno aiutato gli ebrei a fuggire dalla barbarie nazista. Il Pontefice dona poi alla comunità ebraica un piatto in ceramica raffigurante San Pietro. Dopo l’incontro in Piazza Rybné námestie, congedandosi tra gli applausi, si trasferisce infine in macchina verso la Nunziatura di Bratislava per l’incontro privato, prima con il presidente del Parlamento, Boris Kollár, e poi con il primo ministro, Eduard Heger.
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