Papa Francesco, soffermandosi sull’invocazione al “Padre di tutti noi”, riflette sul modo con cui Gesù ci ha insegnato a pregare:
Gesù non vuole ipocrisia. La vera preghiera è quella che si compie nel segreto della coscienza, del cuore: imperscrutabile, visibile solo a Dio. Io e Dio. Essa rifugge dalla falsità: con Dio è impossibile fingere. E’ impossibile, davanti a Dio non c’è trucco che abbia potere, Dio ci conosce così, nudi nella coscienza e fingere non si può. Alla sua radice, la radice del dialogo con Dio, c’è un dialogo silenzioso, come l’incrocio di sguardi tra due persone che si amano: l’uomo e Dio, incrociano gli sguardi e quella è preghiera. Guardare Dio e lasciarsi guardare da Dio, quello è pregare. “Ma, padre, io non dico parole”. Ma guarda Dio e lasciati guardare da Lui. E’ una preghiera, è bella preghiera!
Tale preghiera “non scade mai nell’intimismo”: il cristiano, spiega, non lascia il mondo “fuori dalla porta” ma ha “nel cuore” le persone e le situazioni, i problemi, “tante cose”, portandole tutte “alla preghiera”. Quindi evidenzia quella che definisce “un’assenza impressionante” nel testo del Padre nostro, quella di una parola che – osserva “ai nostri tempi – ma forse sempre – tutti tengono in grande considerazione”, la parola “io”.
Gesù insegna a pregare avendo sulle labbra anzitutto il “Tu”, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”. Non il mio nome, il mio regno, la mia volontà. Io, io no, non va. E poi passa al “noi”. Tutta la seconda parte del “Padre nostro” è declinata alla prima persona plurale: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non abbandonarci alla tentazione, liberaci dal male”. Perfino le domande più elementari dell’uomo – come quella di avere del cibo per spegnere la fame – sono tutte al plurale. Nella preghiera cristiana, nessuno chiede il pane per sé: lo supplica per tutti i poveri del mondo.
Nessun “individualismo” quindi nel dialogo con Dio, né “ostentazione dei propri problemi come se noi fossimo gli unici al mondo a soffrire”.
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Non c’è preghiera elevata a Dio che non sia la preghiera di una comunità di fratelli e sorelle, il noi: siamo in comunità, siamo fratelli e sorelle, siamo un popolo che prega, noi. Una volta il cappellano di un carcere mi ha fatto una domanda: “Mi dica, padre, qual è la domanda contraria a ‘io’?”. E io, ingenuo, ho detto: “Tu”. “Quello è l’inizio della guerra. La parola opposta a ‘io’ è ‘noi’, dove c’è la pace, tutti insieme”. E’ un bell’insegnamento che ho ricevuto da quel prete.
Nella preghiera, quindi, “un cristiano porta tutte le difficoltà delle persone che gli vivono accanto”, i dolori e i tanti volti “amici e anche ostili”.
Se uno non si accorge che attorno a sé c’è tanta gente che soffre, se non si impietosisce per le lacrime dei poveri, se è assuefatto a tutto, allora significa che il suo cuore… ma il cuore com’è? Appassito? No, peggio: è di pietra. In questo caso è bene supplicare il Signore che ci tocchi con il suo Spirito e intenerisca il nostro cuore: “Intenerisci, Signore, il mio cuore ”. E’ una bella preghiera: “Signore intenerisci il mio cuore perché possa capire e farsi carico di tutti i problemi, tutti i dolori altrui”.
D’altra parte, ricorda, Cristo non è passato “indenne” accanto alle miserie del mondo: “ogni volta – mette in luce – che percepiva una solitudine, un dolore del corpo o dello spirito, provava un senso forte di compassione, come le viscere di una madre”. Questo “sentire compassione” – espressione “tanto cristiana”, sottolinea – è uno dei “verbi-chiave” del Vangelo, evidenzia Francesco richiamando la parabola del buon samaritano. Quindi esorta ad una riflessione comune:
Ci possiamo chiedere: quando prego, mi apro al grido di tante persone vicine e lontane? Oppure penso alla preghiera come a una specie di anestesia, per poter stare più tranquillo? Lancio la domanda, ognuno si risponda. In questo caso sarei vittima di un terribile equivoco. Certo, la mia non sarebbe più una preghiera cristiana. Perché quel “noi”, che Gesù ci ha insegnato, mi impedisce di stare in pace da solo, e mi fa sentire responsabile dei miei fratelli e sorelle.
Gesù ci fa pregare, aggiunge, anche per quegli uomini “che apparentemente non cercano Dio”, perché Dio cerca queste persone “più di tutti”.
Gesù non è venuto per i sani, ma per i malati e per i peccatori – cioè per tutti, perché chi pensa di essere sano, in realtà non lo è. Se lavoriamo per la giustizia, non sentiamoci migliore degli altri: il Padre fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Ama tutti il Padre! Impariamo da Dio che è sempre buono con tutti, al contrario di noi che riusciamo ad essere buoni solo con qualcuno, con qualcuno che mi piace.
“Santi e peccatori” siamo tutti fratelli amati “dallo stesso Padre”, prosegue il Pontefice assicurando che, “alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”, su “come abbiamo amato”: un amore non solo “sentimentale”, ma “compassionevole e concreto”. Nei saluti finali, cita tra gli altri gruppi presenti quello che sventola una bandiera panamense, a poche settimane dall’ultima Gmg; quello di lingua araba con i pellegrini provenienti da Siria, Libano e Medio Oriente, ricordando che “oggi ci sono molti dei nostri fratelli che nel mondo soffrono” e hanno “bisogno che lavoriamo per loro e che li ricordiamo nelle nostre preghiere”; e quello dei giornalisti di Askanews “che attraversano un momento di difficoltà”, ricorda che domani si celebra la festa dei Santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi e compatroni d’Europa.
Il loro esempio aiuti tutti noi a diventare in ogni ambiente di vita, discepoli e missionari, per la conversione dei lontani, come dei più vicini. Il loro amore per il Signore ci dia la forza per sostenere ogni sacrificio, affinché il Vangelo diventi regola fondamentale della nostra vita.
Fonte vaticannews.va/Giada Aquilino – Città del Vaticano
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