Nella Basilica Vaticana, il Pontefice presiede la Veglia Pasquale nella Notte Santa. Dopo la benedizione del fuoco nuovo nell’atrio, la processione con il cero pasquale e il canto dell’Exsultet, presiede la Liturgia della Parola, la Liturgia Battesimale e la Liturgia Eucaristica. Amministrati i sacramenti dell’iniziazione cristiana a 8 neofiti, provenienti da Italia, Ecuador, Perù, Albania e Indonesia
Barbara Castelli – Città del Vaticano
“La veglia madre di tutte le veglie”: con queste parole sant’Agostino definiva la celebrazione della Notte Santa, il tempo in cui Cristo vince la morte. Nella notte più luminosa dell’anno, Papa Francesco celebra la Veglia Pasquale e riaccende nel cuore di tutti la speranza per un futuro rischiarato dall’amore del Signore, un “amore che non cambia”, nonostante i peccati dell’uomo, nonostante i “monumenti all’insoddisfazione”, nonostante l’ostinazione a “seppellire la speranza”, nonostante la dilagante “psicologia del sepolcro”.
Nei simboli di cui è intessuta la Veglia Pasquale si esprime il senso della risurrezione di Cristo per la vita dell’uomo e del mondo. La benedizione del fuoco e la preparazione del cero pasquale, che il Pontefice compie nell’atrio della Basilica Vaticana, ricordano a tutti che il mondo delle tenebre è attraversato dalla Luce, il Cristo Risorto, in cui Dio ha realizzato in modo definitivo il suo progetto di salvezza. Questo orizzonte di speranza si staglia con la processione nella Basilica Vaticana, inizialmente avvolta dal buio.
Tante volte il cammino dell’uomo sembra infrangersi “contro una pietra”, ricorda Papa Bergoglio nell’omelia, “sembra che i passi compiuti non giungano mai alla meta” e così può “insinuarsi l’idea che la frustrazione della speranza sia la legge oscura della vita”. Ma “il nostro cammino non è vano”, come non lo è stato per le donne che “portano gli aromi alla tomba” del Maestro, pur nel timore di vedersi sbarrata la strada da una pietra tombale.
Pasqua è la festa della rimozione delle pietre. Dio rimuove le pietre più dure, contro cui vanno a schiantarsi speranze e aspettative: la morte, il peccato, la paura, la mondanità. La storia umana non finisce davanti a una pietra sepolcrale, perché scopre oggi la “pietra viva” (cfr 1 Pt 2,4): Gesù risorto. Noi come Chiesa siamo fondati su di Lui e, anche quando ci perdiamo d’animo, quando siamo tentati di giudicare tutto sulla base dei nostri insuccessi, Egli viene a fare nuove le cose, a ribaltare le nostre delusioni.
Papa Francesco richiama la frase che “scuote le donne” al sepolcro e “cambia la storia”: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5), e a ciascuno chiede di mettere a fuoco le pietre da rimuovere dalla propria esistenza, di non “seppellire la speranza”. Spesso, rimarca, “a ostruire la speranza è la pietra della sfiducia”: “quando si fa spazio l’idea che tutto va male e che al peggio non c’è mai fine”. In tal modo, si diviene “portatori di malsano scoraggiamento”, “cinici e beffardi”.
Pietra su pietra costruiamo dentro di noi un monumento all’insoddisfazione, il sepolcro della speranza. Lamentandoci della vita, rendiamo la vita dipendente dalle lamentele e spiritualmente malata. Si insinua così una specie di psicologia del sepolcro: ogni cosa finisce lì, senza speranza di uscirne viva.
C’è poi una seconda pietra che “sigilla il cuore”, quella del peccato. Il peccato, infatti, “seduce, promette cose facili e pronte, benessere e successo, ma poi lascia dentro solitudine e morte”. Questo vuol dire “cercare la vita tra i morti”: rincorrere “il senso della vita nelle cose che passano”.
Perché ai luccicanti bagliori del denaro, della carriera, dell’orgoglio e del piacere non anteponi Gesù, la luce vera (cfr Gv 1,9)? Perché non dici alle vanità mondane che non è per loro che vivi, ma per il Signore della vita?
Sempre riferendosi all’episodio delle donne che vanno al sepolcro di Gesù, il Pontefice precisa che non di rado “preferiamo rimanere accovacciati nei nostri limiti, rintanarci nelle nostre paure”. E questo “perché nella chiusura e nella tristezza siamo noi i protagonisti, perché è più facile rimanere soli nelle stanze buie del cuore che aprirci al Signore”. Ma il Padre Celeste, ammonisce, “ci chiama ad alzarci, a risorgere sulla sua Parola, a guardare in alto e credere che siamo fatti per il Cielo”.
Dio ci chiede di guardare la vita come la guarda Lui, che vede sempre in ciascuno di noi un nucleo insopprimibile di bellezza. Nel peccato, vede figli da rialzare; nella morte, fratelli da risuscitare; nella desolazione, cuori da consolare. Non temere, dunque: il Signore ama questa tua vita, anche quando hai paura di guardarla e prenderla in mano.
“Gesù è specialista nel trasformare le nostre morti in vita, i nostri lamenti in danza”, è con Lui che “possiamo compiere anche noi la Pasqua”, passare “dalla chiusura alla comunione, dalla desolazione alla consolazione, dalla paura alla fiducia”. Questa è “la certezza non negoziabile della vita”: “nonostante tutto quello che possiamo combinare il suo amore non cambia”.
Papa Francesco chiede ai presenti, e quanti erano collegati grazie alla diretta, di non avere “una fede da museo”, perché “Gesù non è un personaggio del passato”, “non si conosce sui libri di storia”, ma si “incontra nella vita”.
A volte ci dirigiamo sempre e solo verso i nostri problemi, che non mancano mai, e andiamo dal Signore solo perché ci aiuti. Ma allora sono i nostri bisogni, non Gesù, a orientarci. Ed è sempre un cercare il Vivente tra i morti. Quante volte, poi, dopo aver incontrato il Signore, ritorniamo tra i morti, aggirandoci dentro di noi a rivangare rimpianti, rimorsi, ferite e insoddisfazioni, senza lasciare che il Risorto ci trasformi.
Di qui l’esortazione a dare “al Vivente il posto centrale nella vita”. “Chiediamo la grazia di non farci trasportare dalla corrente, dal mare dei problemi – conclude il Pontefice – di non infrangerci sulle pietre del peccato e sugli scogli della sfiducia e della paura. Cerchiamo Lui, in tutto e prima di tutto. Con Lui risorgeremo”.
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