Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano per Vaticannews.va
Nell’ora più buia, la luce di Gesù risorto ci dona “il diritto ad una speranza nuova”, che viene da Dio e non svanirà, perché Lui “persino dalla tomba fa uscire la vita”. Basta “aprire il cuore nella preghiera” e niente “potrà mai rubarci l’amore” che il Signore nutre per noi. E ricevuto l’annuncio di speranza, non teniamolo “nei nostri recinti sacri”, ma siamo “cristiani che incoraggiano, annunciatori di vita in tempo di morte!”.
E’ un inno alla Vita, quello che Papa Francesco eleva dall’altare della Cattedra della Basilica di San Pietro, nel cuore della Veglia pasquale nella Notte santa. La Vita che è il Risorto, al quale, “pellegrini in cerca di speranza” ci stringiamo come le donne di ritorno dal sepolcro vuoto. La vita che si deve fare canto in tutto il mondo, unito oggi dalla pandemia, così forte da mettere a tacere “le grida di morte”, le guerre, perché serve piuttosto il pane, fermando “la produzione e il commercio di armi” e gli aborti.
La celebrazione si sviluppa, in una Basilica Vaticana semivuota, dalla suggestiva liturgia detta del “lucernario”, che apre solennemente la Veglia, con la benedizione del fuoco nuovo, l’accensione del cero pasquale e, mentre il tempio si illumina al canto “Lumen Christi”, la processione verso l’altare della Cattedra. Davanti ad un drappo rosso svetta il crocifisso di San Marcello al Corso, accanto all’icona di Maria Salus Populi Romani. Due immagini che accompagnano tutte le celebrazioni del Tempo di Pasqua in Vaticano. Il “lucernario” si chiude con il canto dell’Exsultet, l’annunzio pasquale, in latino, intonato dal diacono.
Al termine della liturgia della Parola, nell’omelia Francesco rilegge il Vangelo della Resurrezione secondo Matteo, che inizia con il sabato, “il giorno del grande silenzio”, che quest’anno “avvertiamo più che mai”. Ci specchiamo, sottolinea, nei sentimenti delle donne che, come noi oggi, “avevano negli occhi il dramma della sofferenza”, “avevano visto la morte e avevano la morte nel cuore”, con una paura: “avrebbero fatto anche loro la stessa fine del Maestro?”. Il futuro, poi, era “tutto da ricostruire”. Per loro, chiosa il Pontefice, “era l’ora più buia, come per noi”.
Ma questo non basta perché le donne si rinchiudano “nel pessimismo”, ricorda Papa Francesco, perché cedano a lamento e rimpianto. Invece “nelle loro case preparano i profumi per il corpo di Gesù”, così “non rinunciano all’amore” e “nel buio del cuore accendono la misericordia”. La Madonna, intanto, “di sabato, nel giorno che verrà a lei dedicato, prega e spera” e nel dolore “confida nel Signore”. Così, senza saperlo, preparavano “il giorno che avrebbe cambiato la storia”.
Gesù, come seme nella terra, stava per far germogliare nel mondo una vita nuova; e le donne, con la preghiera e l’amore, aiutavano la speranza a sbocciare.
All’alba le donne, al sepolcro, incontrano l’angelo: “Non abbiate paura – dice loro – Non è qui, è risorto”. Poi incontrano Gesù che ripete: “Non temete”. Ecco, spiega il Papa, “l’annuncio di speranza”, che è anche “per noi, oggi. Sono le parole che Dio ci ripete nella notte che stiamo attraversando”.
Non è mero ottimismo, non è una pacca sulle spalle o un incoraggiamento di circostanza, con un sorriso di passaggio. No. È un dono del Cielo, che non potevamo procurarci da soli. Tutto andrà bene, diciamo con tenacia in queste settimane, aggrappandoci alla bellezza della nostra umanità e facendo salire dal cuore parole di incoraggiamento. Ma, con l’andare dei giorni e il crescere dei timori, anche la speranza più audace può evaporare. La speranza di Gesù è diversa. Immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita.
Di solito, prosegue Francesco, “la tomba è il luogo dove chi entra non esce”. Ma Gesù è uscito, “è risorto per noi, per portare vita dove c’era morte, per avviare una storia nuova dove era stata messa una pietra sopra”. Come ha ribaltato il masso che chiudeva la sua tomba, “può rimuovere i macigni che sigillano” il nostro cuore. Per questo, è l’invito del Pontefice, “non cediamo alla rassegnazione”: possiamo e dobbiamo sperare, “perché Dio è fedele”. Non ci ha mai “lasciati soli”, è venuto “in ogni nostra situazione, nel dolore, nell’angoscia, nella morte”. La sua luce, che “ha illuminato l’oscurità del sepolcro”, vuole “raggiungere gli angoli più bui della vita”. Così, “anche se nel cuore hai seppellito la speranza, non arrenderti”. Con Dio “niente è perduto” e “il buio e la morte non hanno l’ultima parola”.
“Coraggio” ripete Papa Francesco, ricordando che nei Vangeli è una parola usata quasi solo da Gesù. “Se sei debole e fragile nel cammino, se cadi – insiste – non temere, Dio ti tende la mano e ti dice: Coraggio!”. E’ vero, come dice don Abbondio nei Promessi Sposi, che “Il coraggio, uno non se lo può dare”, ma il Papa aggiunge che “lo puoi ricevere, come un dono”. Basta, chiarisce, aprire il cuore nella preghiera, sollevando “quella pietra” all’imboccatura del cuore “per lasciare entrare la luce di Gesù”.
Basta invitarlo: “Vieni, Gesù, nelle mie paure e di’ anche a me: Coraggio!”. Con Te, Signore, saremo provati, ma non turbati. E, qualunque tristezza abiti in noi, sentiremo di dover sperare, perché con Te la croce sfocia in risurrezione, perché Tu sei con noi nel buio delle nostre notti: sei certezza nelle nostre incertezze, Parola nei nostri silenzi, e niente potrà mai rubarci l’amore che nutri per noi.
Questo è l’annuncio pasquale, “annuncio di speranza”, sottolinea Francesco, che contiene però anche “l’invio”. “Andate ad annunciare ai miei fratelli – dice Gesù – che vadano in Galilea”. E Gesù li precede, dice l’angelo. “È bello” commenta il Pontefice, sapere che il Signore cammina davanti a noi, ed è già in Galilea, luogo che per Lui e i discepoli “richiamava la vita quotidiana, la famiglia, il lavoro”. E’ lì che Gesù desidera che portiamo la speranza. Ma la Galilea per i discepoli era anche il luogo della prima chiamata.
Ritornare in Galilea è ricordarsi di essere stati amati e chiamati da Dio. Ognuno di noi ha la propria Galilea. Abbiamo bisogno di riprendere il cammino, ricordandoci che nasciamo e rinasciamo da una chiamata gratuita d’amore. Là, nella mia Galilea. Questo è il punto da cui ripartire sempre, soprattutto nelle crisi, nei tempi di prova. Nella memoria della mia Galilea.
E la Galilea, ricorda ancora Papa Francesco, era la regione più lontana da Gerusalemme, e la più diversa, perché popolata da genti che praticavano vari culti. Questo, per il Papa, ci dice che “l’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti”. Tutti, infatti, “hanno bisogno di essere rincuorati”, da noi cristiani, “che abbiamo toccato con mano il Verbo della vita”. Che bello, esclama Francesco, “essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte!”.
In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita!
Cessino gli aborti, che uccidono la vita innocente. Si aprano i cuori di chi ha, per riempire le mani vuote di chi è privo del necessario.
Alla fine, conclude il Pontefice, le donne “abbracciarono i piedi di Gesù” che “avevano calpestato la morte e aperto la via della speranza”. Per questo oggi “noi, pellegrini in cerca di speranza”, ci stringiamo a Gesù Risorto. “Voltiamo le spalle alla morte – è la preghiera finale del Papa – e apriamo i cuori a Te, che sei la Vita”
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