«Gesù aveva una moglie?». Tra il 18 e il 19 settembre 2012 tutti i maggiori organi di stampa mondiali rilanciarono la conferenza stampa tenuta dalla professoressa Karen King di Harvard a pochi metri dal sagrato della Basilica di San Pietro in Vaticano: la notizia consisteva in un frammento di papiro, poco più piccolo di una carta di credito, che recava, tra altre sette, la linea: «…Gesù disse loro: “Mia moglie…” ».
Il lancio riprendeva con vividi accenti il contenuto di una «comunicazione breve» – dal titolo sommesso: A new coptic gospel fragment – tenuta dalla King durante il 10° Congresso internazionale di Studi coptologici. Gli articoli iniziarono a moltiplicarsi e l’entusiasmo con cui si metteva a tema questo papiro travalicò ben presto l’usuale quiete dei dibattiti scientifici: mentre la King, che aveva presentato il frammento prima di aver ultimato il minimo sindacale delle analisi – critiche e scientifiche – di rito, si affrettava a intitolarlo “Vangelo della moglie di Gesù”, Francis Watson, coptologo della Durham University, il 20 di quello stesso mese, pubblicava online un resoconto dal titolo eloquente: “Il Vangelo della moglie di Gesù: Come è stato composto un frammento di un falso Vangelo”. Però da subito su chiunque esternasse dubbi circa l’autenticità del pezzo si abbatté una gragniuola di esami di laboratorio: la datazione al carbonio14, l’analisi degli inchiostri, le microspettroscopie infrarosse, lo studio delle immagini microscopiche, l’analisi multi-spettrale dimostravano “inequivocabilmente” che il papiro era del VII-VIII secolo.
Il resto, poggiando su basi così “solide”, diventava una sorta di conseguenza necessaria: il documento era parte di un Vangelo – non di un’altra tipologia di scritti –; sebbene il frammento in sé fosse di datazione tarda, il testo che riportava era la traduzione di un originale greco del II secolo, verosimilmente in origine attribuito a un apostolo… L’intera questione si trasformò nell’ennesima occasione per fare della ricerca un incontro di pugilato: negare l’originalità del documento o anche solo invocare un po’ di prudenza fu per qualche tempo un ottimo modo per farsi dare dei reazionari oscurantisti; trarre deduzioni sempre più clamorose da questo tormentato “Vangelo” divenne viceversa il dress code intellettuale d’obbligo per dimostrare la propria freschezza accademica. Eppure, col tempo, le voci che si levavano per dubitare del reale significato – o anche solo per sottolineare alcune incongruenze – di questo papiro andavano crescendo; nessuna, però, seppe più far notizia. Ha fatto, invece, notizia un recente, dettagliato reportage dal titolo “L’incredibile storia della moglie di Gesù” nel quale Ariel Sabar sull’Atlantic ha ricostruito l’origine di questo papiro. L’inchiesta non ha avuto vita facile: avendo la King concordato con il proprietario del papiro un singolare patto di anonimato, l’indagine poté iniziare solo con poche e frammentarie informazioni.
Anche così, però, le prime incongruenze emersero immediatamente. L’anonimo proprietario, infatti, avrebbe acquistato il prezioso papiro da Hans-Ulrich Laukamp – scomparso nel 2002, prima che questa vicenda iniziasse –: un appassionato, lungimirante e intraprendente signore che, da giovane, pur del tutto ignaro di papirologia e senza aver mai compiuto studi coptologici (aveva all’incirca la nostra terza media), dopo essere fuggito da Berlino Est nel 1961, vi fece ritorno nel 1963 proprio per acquistare questo straordinario documento, onde poi trafugarlo rocambolescamente nel “mondo libero”.
Venne ricompensato dalla vita con una piccola ma, per un certo tempo, fortunata impresa, produttrice di componentistica meccanica per la Bmw. Sabar si dedicò proprio a questa ditta, per un certo periodo attiva anche negli Stati Uniti, restando colpito da un suo consulente commerciale, giunto negli Usa nel 1993: Walter Fritz. Un Walter Fritz aveva firmato un’importante ricerca su certi problemi tra il faraone Akhenaten e suo padre, pubblicata nel 1991 per i prestigiosi Studien zur Altägyptischen Kultur: contattato da Sabar, il mediatore negò di essere l’autore dell’articolo e di avere a che fare con i papiri, ma il reporter dell’Atlantic scoprì che il promettente studioso della Freie Universität di Berlino non aveva potuto terminare i suoi studi perché accusato di aver pubblicato in quel suo contributo parte delle ricerche del professor Jürgen Osing, giunto da poco alla Freie Universität.
Abbandonata la sua prima vita, il giovane Fritz riuscì a ottenere l’importante incarico di direttore del Museo della Stasi di Berlino Est (1991); Museo che dovette lasciare frettolosamente dopo solo un anno, avvelenato da certe malevole voci che avevano presunto di associare la sua direzione a un’impressionante serie di sparizioni di reperti. Dotato di un ingegno versatile, riuscì a rialzarsi ancora una volta: procacciando per l’impresa di un giovane imprenditore berlinese – Hans-Ulrich Laukamp – un’importante commessa dalla Bmw. Provata l’identità dei due Fritz, Sabar scoprì che in Florida Fritz aveva prima inaugurato una rivendita digitale di paccottiglie egiziane (nel 1995), poi prodotto piccoli amuleti portachiavi, riproduzioni d’antiche icone incluse, con minuscoli frammenti di antichi fogli di papiro, in parallelepipedi di plexiglass.
Walter Fritz, pur senza ammettere di aver confezionato il papiro in questione, messo di fronte alle indagini di Sabar ha infine riconosciuto di esserne il misterioso proprietario. È all’apice di questa istruttiva vicenda che fa il suo ingresso l’autorevole figura di Karen King, accettando cotanti reperti da cotanto interlocutore. Di fronte alla pubblicazione di questa inchiesta, la stessa professoressa ha dovuto riconoscere che l’ipotesi dell’inautenticità stava effettivamente prendendo corpo; d’altra parte, però, precisava la King, la mancata esplicita ammissione della falsificazione da parte di Fritz rende «teoricamente possibile che il papiro in sé sia autentico».
L’inattesa comparsa a questo punto della prudenza suona paradossale, per non dire involontariamente grottesca: sbagliare, quando si fa ricerca, non è un “rischio del mestiere”, è una certezza. Per questo esiste un aspetto qualificante dello studio critico che va sotto il nome di metodologia. Il rigore del metodo è, per uno studioso, il contenuto della propria etica professionale: la prudenza, in questo contesto, non è un saggio consiglio dell’età ma un presupposto strutturale ineludibile. Cavalcare lo scandalo – magari organizzando una conferenza stampa dal contenuto opaco – significa porre il proprio focus non nello studio critico, ma nell’esito, negli effetti che questo studio può suscitare; se poi questi effetti sono preventivamente connotati, ciò implica una ricerca “tendenziosa”, tendente ad altro rispetto alla descrizione terza – per quanto possibile – della storia e dei suoi fenomeni. Delegare l’analisi storiografica di un documento ai soliti, formidabili “esami di laboratorio” è errore da principianti: l’approccio critico è certo supportato da tali rilevazioni quantitative ma non è sostituibile da queste (è possibile comprare frammenti di autentici antichi papiri e residui incrostati di autentici antichi inchiostri che, assemblati dopodomani, danno un autentico falso moderno). Trascurare programmaticamente – come più volte ribadito dalla King – l’origine di un documento è prassi non del tutto edificante, per così dire. Speriamo che l’Accademia sappia ancora imparare, con coscienza libera e mente chiara.
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it)