Padre Vito racconta Chiara Corbella: la fede, il matrimonio, la morte, la tomba a Roma
«Se chiudo gli occhi immagino Chiara felice, serena. Magari ci sta guardando mentre siamo qui per raccontare la sua storia e sorride come ha sempre sorriso». Padre Vito D’Amato, frate minore francescano, racconta dodici anni di vita con Chiara e con il marito Enrico. Il primo incontro ad Assisi. La prima confessione. I lunghi confronti sulla fede. Gli affetti. La malattia. La morte. La vita eterna. Lui, il padre spirituale di Chiara, parla lentamente. E le prime parole sembrano quasi un ammonimento: «Pensiamo ai santi come a eroi, come persone capaci di fare cose speciali. No, non è così, l’esperienza di Dio non è mai scontata». Siamo arrivati sulla costa romana per capire chi era Chiara Corbella e che cosa è stata la sua vita. Per trovare una risposta a tanti interrogativi. Per riflettere sulla forza dell’Amore che vince sulla morte. E da qui partiamo.
Padre Vito, come ricorda le ultime ore di Chiara?
Con immagini piene di luce. Ricordo la casa in campagna sulle colline proprio a due passi da qui. I rosari recitati con la voce che non usciva. L’ultimo periodo non viveva Chiara, viveva il tumore. Ma lei era felice. Era bella. Così bella perché stava sulla Croce con Cristo.
Il 4 aprile del 2012 i medici emisero il verdetto più brutto…
Chiara chiamò la famiglia. Spiegò, come sapeva fare solo lei, che le restava poco da vivere. Ricordo lo sgomento. La paura. Ricordo i volti della mamma e del papà. Ma ricordo soprattutto le parole di Chiara. «Signore chiedimi tutto, ma queste facce no, proprio no…».
Mi sta dicendo che era quasi felice di quello che si stava compiendo.
Certo, anche lei era dolorante, confusa. Ma sempre nella pace. E allora tolga il quasi: Chiara era felice. Chiara non è morta serena, è morta felice. Vedeva la sua vita compiuta. E si augurava che quello che stava accadendo potesse scuotere, colpire, far pensare. Lo dico ancora più chiaro: potesse regalare la fede.
Come racconterebbe la fede?
La fede sono salti. È restare per un po’ nel vuoto. È perdere il controllo.
Quanto ha voluto bene a Chiara?
Molto. E lei a me. È morta dicendo: «Ti voglio bene». «Voglio bene a tutti». Chiara pregava tutti i giorni perché diventassi santo e sono certo che continua a farlo. L’ultimo Natale mi aveva regalato una maglietta e, sopra, aveva disegnato una immagine. Io di spalle che cammino lungo una strada. Accanto a me due bambini. Come due angeli. E la loro data di nascita, che coincide con quella della morte. Maria, 10 giugno 2009, Davide, 24 giugno 2010. Il giorno del mio compleanno. Davide viveva 38 minuti e io compivo 38 anni. Quante volte mi sono interrogato su quella strana coincidenza. Mi dicevo: tu in 38 anni che cosa hai combinato? Poi mi ricordavo le parole di Chiara: l’importante nella vita non è fare qualcosa, è nascere e lasciarsi amare.
Pensa mai a quei due bambini?
Penso che sono santi. Santi perché ci hanno fatto vedere la luce della vita eterna. L’abbiamo toccata, accarezzata, vissuta in quei trentotto minuti dove un mare di amore si è riversato su tutti noi. A Chiara in quei minuti è sparita la paura di morire: l’Amore che scaccia il timore, il progetto di Dio che prende forma.
Padre D’Amato con Chiara e il marito Enrico
Sono passati sei anni dalla morte di Chiara Corbella e la diocesi di Roma sta avviando il processo di beatificazione. È una storia dura. Commovente. La storia di questa giovane mamma romana che ammalata di cancro sceglie di far aspettare le cure per far nascere Francesco. Chiara muore a ventotto anni. Era bella, suonava il violino. Prima della nascita di Francesco lei e il marito Enrico avevano avuto altri due bambini, Maria Grazia Letizia, nata anencefalica e vissuta solo 30 minuti, e Davide Giovanni, anche lui morto subito dopo la nascita per malformazioni gravissime. Una prova dura. Chiunque al suo posto se la sarebbe presa almeno un po’ con Dio, Chiara no. «Nel matrimonio – scrive nei suoi appunti – il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita, ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente».
Chiara sarà santa?
Ho fiducia che sarà così. Vedo la Chiesa come reagisce davanti alla sua storia. Vedo la gente pregare sulla sua tomba al Verano. Perché quella tomba è un incrocio, perché attraverso il corpo di Chiara è passato Gesù Cristo.
Ricorda il vostro primo incontro?
Assisi, Basilica di Santa Maria degli Angeli. Noi frati francescani tenevamo un corso per giovani. Ricordo la prima confessione con Chiara. Era giovane, credente e, per certi versi, immatura. Sicuramente non aveva ancora affrontato un nodo: far entrare Cristo in questo fidanzamento. Aveva paura di perdere Enrico…
E invece…
E invece Chiara passò da «io questo ragazzo me lo sposo» a «io accolgo te come mio sposo». Sembrano due concetti uguali. Non lo sono. Accogliere è un dono. Pochi giorni prima di morire le feci una domanda diretta: che cosa ti mancherà di più? Pensavo a Francesco, ma Chiara mi spiazzò. «Il tempo che non passerò con Enrico». Ecco, questo è il matrimonio. Chiara era Chiara perché ha sposato Enrico. La storia di Chiara è la storia del suo matrimonio. Chiara è Chiara Corbella “Petrillo”. Penso a quella relazione profonda e penso alle parole di Enrico la notte prima della morte di Chiara. La guardava. «Non ti ho mai visto così bella», le ripeteva. Aveva ragione. Era la bellezza che supera la morte.
A lei la morte fa paura?
Prima di più. Poi sempre meno. Perché mi sento amato da Dio e dagli altri.
E a Chiara ha mai fatto paura?
C’è una lettera scritta per il primo compleanno di Francesco, il 30 maggio del 2012. Due settimane prima della morte. Quasi un testamento. Una frase mi resta nella testa. «L’Amore ti consuma, ma è bello morire consumati…». È proprio così: facciamo sforzi immensi per conservare questa vita ma solo quando ti consumi diventa eterna.
Insisto: Chiara aveva paura?
Le ultime notti sono state dure. Per gli amici, per la famiglia, per chi le stava accanto. Ma Chiara è stata capace di scherzare fino all’ultimo. Anche davanti alla morte.
Ora Francesco ha sette anni: com’è questo bambino?
È un bambino abituato a guardare il cielo. Penso a Francesco e mi interrogo sul nostro rapporto con i genitori. Troppe volte abbiamo pretese assurde. Che non muoiano. Che non sbaglino. Che non ci deludano. Che non ci abbandonino. Tutto questo non lo possiamo chiedere a dei poveri uomini, questo si può chiedere solo a Dio.
È stato lei a celebrare il funerale?
Chiara voleva così. E io quel giorno pensavo alle nostre lunghe conversazioni sulla vita e sulla morte. Man mano che perdi questa vita ne vedi un’altra. La prima è nella paura. La seconda nell’amore.
di Arturo Celletti per Avvenire on line