Finis Mundi

Parla Padre Pepe, il sacerdote amico di Papa Francesco: «La mia lotta nelle baraccopoli, il centro del mondo»

Ho cominciato vent’anni fa. Bergoglio, che all’epoca era vicario, aveva deciso di inviarmi a Ciudad Oculta, quartiere ai margini di Buenos Aires, a lavorare con i bambini e con i poveri; probabilmente aveva capito che i due carismi peculiari della mia vocazione come sacerdote diocesano potevano esprimersi al meglio nelle villas (…).

Mi sono trovato così in un gruppo attivo già da tempo, nato dall’opera del cardinal Aramburu, il vescovo che aveva creato il Gruppo di sacerdoti per le villas d’emergenza. Quei sacerdoti erano andati a vivere nelle villas, e questo aveva costituito l’atto fondamentale per comprendere una realtà di cui fino a quel momento si era parlato sempre dal di fuori. La Chiesa, installandosi a vivere lì, era diventata l’unica istituzione a costruire un lavoro pastorale, sociale e spirituale dall’interno.

L’apparizione di Bergoglio aveva già di per sé marcato una differenza: dal 1996 al 2003, nessun funzionario dello Stato aveva mai messo piede nella villa, e l’unica persona importante della società porteña che l’aveva attraversata era il cardinale Bergoglio. Se oggi parla della periferia, è perché l’ha vissuta: non restava a Buenos Aires, nella plaza de Mayo, a parlare di una cartolina turistica, ma guardava la città in modo diverso, dalla prospettiva della Villa 21, di Ciudad Oculta, della Villa Bajo Flores. Se c’era un prete malato, ad esempio, veniva lui a celebrare la messa, a bere del mate; insomma, era presente, era uno di noi. Il suo impegno nelle villas ci ha dato molta forza, ha aperto una nuova strada, e ha creato un legame diretto tra lui e gli abitanti di queste realtà.

All’inizio noi preti della villa eravamo in dieci, e nel giro di poco tempo, pur in un momento di grandi crisi vocazionali, siamo diventati ventidue. Il sostegno e la presenza di Bergoglio sono stati fondamentali anche e soprattutto perché noi abbiamo sì ereditato una storia, ma le sfide che abbiamo dovuto affrontare erano nuove, diverse da quelle di Carlos Mugica (uno dei primi sacerdoti impegnati nelle baraccopoli negli anni Settanta, ndr) e dei suoi compagni. Ai tempi di Mugica, la priorità era la costruzione di fognature e impianti elettrici. Quando siamo arrivati noi, ci siamo trovati di fronte inondazioni, mancanza di acqua potabile in alcuni luoghi, problemi di infrastrutture, e soprattutto criminalità e narcotraffico. Nei vent’anni in cui ho vissuto nelle villas, la diffusione della droga è cresciuta costantemente. Da un punto di vista pastorale, questo ha reso necessario intervenire in modo diverso: bisognava capire come agire con bambini e giovani impastoiati nel mercato distruttivo dei narcotrafficanti e nella tossicodipendenza.




Non avrei mai pensato di dovermi occupare della droga. Nel 2001 avevo fondato una scuola e passavo il tempo a organizzare mense, perché credevo che la nostra priorità fosse rispondere alla crisi di quell’anno (…). Tuttavia, quando ci siamo accorti che la droga cominciava a penetrarvi in modo capillare, abbiamo deciso che era quello il problema di cui dovevamo occuparci e abbiamo elaborato un piano. (…) La nostra proposta è stata la creazione dei centros barriales, in cui si offre sostegno immediato ai tossicodipendenti, in controtendenza con la lentezza burocratica caratteristica delle politiche statali. In questi centri, il ragazzo recuperato può trasformarsi in un eccellente operatore terapeutico – eccellente perché comprende davvero quella realtà per averla vissuta in prima persona –, ma ci si avvale anche del supporto di uno psicologo o di uno psichiatra; inoltre, fatto fondamentale, è la comunità intera ad assumersi la responsabilità dei ragazzi e del problema della droga.

Al cuore del nostro lavoro, quindi, c’è il quartiere, con una sfida ben precisa: che non sia solo lo specialista a occuparsi dei tossicodipendenti ma tutta la comunità, dato che il problema attraversa l’intera società. (…) Questa, però, non può limitarsi a incolpare lo Stato. È troppo facile, equivale a una totale deresponsabilizzazione che porta, poi, a paventare certe idee per eliminare il problema come ad esempio la depenalizzazione, la legalizzazione, che secondo molti causerebbe un indebolimento del narcotraffico.

I dibattiti che ci sono stati a Buenos Aires hanno introdotto per molto tempo concetti equivoci che ci hanno allarmato: si è parlato di “consumo ricreativo” e di “consumo problematico”. Alcuni dicevano che il consumo ricreativo risveglia qualità e capacità, che chiunque può gestirlo, mentre il consumo problematico sarebbe quello dei ragazzi della villa che fumano il paco (droga ricavata dallo scarto della lavorazione dellla cocaina, ndr) e non riescono a sostenere la loro vita. Tuttavia, il concetto di consumo ricreativo è stato smentito dalla realtà: i ragazzi morti mentre si avvicendavano quei dibattiti, infatti, avevano consumato sostanze per “ricrearsi”.

Nel lavoro della comunità deve prevalere un circolo virtuoso che possa accompagnare le varie tappe della vita dei ragazzi, svolto attraverso istituzioni in cui i giovani siano coinvolti: un centro sportivo, una scuola, la parrocchia. Abbiamo visto che nei quartieri più poveri alcuni anelli di questa catena saltano: salta la scuola o magari la parrocchia oppure il circolo sportivo. Allora i ragazzi precipitano in un circolo vizioso, cominciano a vivere alla rovescia e il crimine e la droga si insinuano nelle loro vite. Per questo è importante rafforzare il circolo virtuoso in cui parrocchia, centro sportivo e scuola giocano un ruolo fondamentale in quanto fungono da importanti agenti di prevenzione (…)

Quando si lavora con uno sguardo a tutto tondo, i giovani guadagnano un orizzonte e il circolo virtuoso che si crea può aiutarli a sviluppare le loro capacità. Le istituzioni serie danno ai ragazzi un senso di appartenenza e offrono loro un riferimento positivo, creano un mondo in cui non ci sia bisogno della droga per essere felici. Siamo ancora in tempo per salvare molte vite e prevenire molti problemi. (© 2017 Lit Edizioni)




Fonte www.avvenire.it

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