Fermiamoci un attimo a riflettere sulle parole: si tratta di verbi che esprimono una metafora: prendere qualcosa, abbracciarla, contenerla, assimilarla, farla propria. Ogni metafora ha due elementi: quello che dà origine alla metafora e quello che rinvia a un significato analogo ma ulteriore. In questo caso il primo significato è legato a nostre esperienze aurorali: il bambino che ciascuno di noi è stato e che cerca di entrare in contatto con la realtà afferrando gli oggetti con le mani, abbracciandoli, mettendoli in bocca come per mangiarli. Quel mondo che per un po’ di tempo è stato misteriosamente “altro”, irraggiungibile, in cui erano eventualmente “loro” ad avvicinarsi (persone e cose offerte dalle persone) adesso diviene a portata di mano, purché lo si sappia afferrare. Non tutto però è afferrabile: qualcosa è troppo lontano, o troppo alto, o troppo pesante, o troppo grande. Sono le categorie profonde che poi si applicheranno non più a oggetti ma a concetti: quasi un “afferrare” con la mente invece che con il braccio pezzi di realtà, idee, stati d’animo, competenze. Ma qui le analogie della metafora, come per tutte le metafore, terminano. È semplice dire se sono riuscito ad afferrare un oggetto oppure no, non lo è altrettanto dire se io o l’altro abbiamo “capito” (“capire” viene dal latino “capere
”, essere in grado di contenere, come ad esempio nell’espressione “un vaso molto capiente”).Fonte. Dialoghi.net
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