Mentre riprendono anche gli sbarchi sulle isole greche dalla Turchia (ma con numeri ridotti), la chiusura della rotta balcanica ha isolato il nostro Paese sul fronte migranti. Sempre più le partenze dalla Libia, e anche dall’Egitto, verso le coste siciliane. Un tratto di mare molto pericoloso. Sulla rotta del Mediterraneo centrale si registra infatti l’85% di tutte le morti in mare. Spiega Frank Laczko dell’Oim: “Nel Mediterraneo, il numero di decessi è aumentati di oltre un terzo rispetto allo scorso anno. Nel 2016, un migrante ogni 85 è morto nella traversata, rispetto a uno ogni 276 nel 2015”.
I MORTI
Tutte le società, in ogni epoca, s’interrogano di fronte al mistero della morte; e ognuna di esse, in ogni tempo e in ogni luogo, dà una differente risposta e un’interpretazione propria al riguardo. Quale sia la migliore e la più adeguata non solo è difficile, ma è perfettamente inutile dirlo. In genere, la risposta che l’uomo dà di fronte agli interrogativi che il mistero della morte provoca in lui corrisponde pari passo alla risposta che l’uomo dà alla qualità della vita.
Ma ciò che è più interessante non è – come potremmo ingenuamente pensare – che nel momento in cui l’uomo dà una dimensione qualitativamente migliore alla propria vita, di conseguenza dà pure una risposta meno problematica agli interrogativi che gli vengono dalla morte. Anzi, forse accade l’esatto contrario. Laddove si è assistito, lungo la storia, a società che miglioravano le proprie condizioni di vita e offrivano al mondo di se stesse un’immagine di progresso acquisito, contemporaneamente quelle stesse società facevano drammaticamente i conti con la loro inadeguatezza nel rispondere agli interrogativi che l’esistenza metteva loro di fronte. Non a caso, le società tecnologicamente ed economicamente più progredite sono quelle in cui si verifica il numero più alto di suicidi.
E pensare che questa discontinuità tra progresso della qualità di vita e progresso nell’accettazione del morire era già stato evidenziato in modo mirabile dal Concilio Vaticano II cinquant’anni fa, in uno dei passaggi più significativi della Costituzione “Gaudium et spes”, l’ultimo dei documenti conciliari, promulgato proprio alla vigilia della chiusura dello storico evento nel 1965: “Con tutto ciò, di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (GS 10).
In pratica, una società che persegue e ottiene un progresso tale da migliorare in tempi brevi e in maniera sensibile la qualità della vita dei propri membri, non altrettanto rapidamente riesce ad accettare che la morte sia vista come il compimento di questo progresso, bensì la vive come il fallimento profondo e totale, di ogni titanico tentativo di raggiungere la perfezione. Detto in parole povere: le società agricole, contadine, quelle nelle quali sono cresciute la maggior parte delle persone che oggi compongono la terza età, avevano una familiarità con la morte – dovuta appunto ad una qualità di vita non certo elevata come la nostra – tale da non viverla come un dramma o una sconfitta, ma come un passaggio necessario, senza dubbio come un’espressione della precarietà umana, ma forse anche come un’opportunità, non foss’altro un’opportunità di andare altrove a stare meglio di quanto si stesse qui sulla terra. I nostri nonni non si facevano certo angosciare da una serie di funerali cui erano sovente chiamati a partecipare, magari anche di persone relativamente giovani. E questo, non perché ci fosse un dono particolare che proveniva da una tenace e rupestre fede, ma per una concezione della vita relativizzata – e di parecchio – rispetto alla nostra, che ne fa invece un assoluto secondo i canoni dell’efficienza, della perfezione, dell’estetismo esasperato, del piacere disponibile in ogni momento, del “tutto mi è possibile”.
E poi, solo poi, una fede cristiana comunemente diffusa perché vissuta in una sorta di regime di cristianità, altro non faceva che recepire e rafforzare ulteriormente tutto questo, aprendolo a una dimensione soprannaturale vista come premio per le sofferenze, come giusto traguardo di una fatica quotidiana, come premio per una lotta aspramente combattuta.
Perciò oggi, in un contesto in cui il regime di cristianità non è più espressione del nostro esistere, come viviamo il nostro rapporto con la morte? O meglio: cosa dice a noi il messaggio del cristianesimo di fronte a questi interrogativi che paiono a volte rimanere sospesi in aria senza una risposta, creando ancor più angoscia di quanto già esprimono? Oggi nemmeno la Chiesa si sentirebbe di dare risposte totalizzanti e rassicuranti al riguardo, sia perché la cultura del relativismo ha pervaso la vita di ogni uomo e quindi anche di ogni membro della comunità dei cristiani; sia perché, effettivamente, le situazioni storiche e sociali di vita nelle quali ci troviamo a vivere non accettano facilmente risposte forti ma che poi non eliminano la drammaticità di situazioni che si vivono sulla pelle quotidianamente e anche in maniera molto drammatica. Nessun uomo, per quanto pervaso di fede, accetta più di sentirsi dire che di fronte alla morte non dobbiamo temere, perché in Paradiso godremo della visione beatifica di Dio: e questo, non perché ciò non sia vero, ma perché dice molto poco all’uomo contemporaneo, pur credente che esso sia. Di che Paradiso parliamo, a un uomo che ha la possibilità in qualsiasi istante di riprodurre condizioni di vita e condizioni di morte in tempi più brevi ed efficaci di quanto la natura sappia fare?
Forse, oggi come ieri, il messaggio cristiano ha ancora una cosa da dire: che nel momento della morte, l’uomo non è solo. Che di fronte alla morte, quella fine che suonava come una sconfitta è invece il compimento di una vita che siamo esortati – proprio per questo – a vivere con intensità, come se ogni giorno fosse l’ultimo e con l’entusiasmo del primo; che di fronte ai grandi insuccessi della vita, c’è sempre la possibilità di sperare in un Dio che non è giudice e quindi non dà premi e castighi in base alle opere commesse o alle sofferenze sopportate, ma che è Padre, e quindi si prende cura dei suoi figli sempre.
E se la prova della sua paternità ce l’ha data nel Primogenito dei suoi figli, dandone prova pure alla storia risuscitandolo dalla morte, forse allora il nostro vivere, a volte così drammatico ma anche così meravigliosamente bello, acquista una ricchezza, una dimensione tutta particolare, che ci fa dire che, in fondo, la morte non fa più paura: il nostro Dio è più forte anche di lei.
di Don Alberto Brignoli
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