Categorie: Testimonium

Peppe Diana, il prete ucciso dalla camorra. Sarà beato!

Don Giuseppe Diana merita di essere beato. Ne sono sempre state convinte le associazioni che ne hanno continuato a fare memoria per 21 anni. Una convinzione che il Comitato don Diana e l’Agesci hanno messo per iscritto e consegnato al vescovo di Aversa, e vicepresidente della Cei per il Mezzogiorno, Angelo Spinillo. Ieri sera nel corso di un’intervista rilasciata a TG2000 anticipando l’omelia della messa che sarà celebrata stamattina alle 7,30 nella chiesa San Nicola di Bari, Spinillo ha parlato della petizione per aprire la causa di beatificazione e di «un’esigenza condivisa anche dalla comunità ecclesiale», facendo così intravedere dopo le intenzioni annunciate già due anni fa in coincidenza con l’avvio del processo di beatificazione per don Pino Puglisi ucciso il 15 settembre del 1993, un altro passo in avanti.

Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe, da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1968 entra in seminario ad Aversa: vi frequenta la scuola media e il liceo classico. Successivamente intraprende gli studi teologici nel seminario di Posillipo, sede della Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Qui si licenzia in Teologia biblica e poi si laurea in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 1978 entra nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI) dove fa il caporeparto. Nel marzo 1982 è ordinato sacerdote. Diventa assistente ecclesiastico del Gruppo Scout di Aversa e successivamente anche assistente del settore Foulards Bianchi. Dal 19 settembre 1989 è parroco della parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe, suo paese nativo, per diventare poi anche segretario del vescovo della diocesi di Aversa, monsignor Giovanni Gazza. Insegna inoltre materie letterarie presso il liceo legalmente riconosciuto del seminario Francesco Caracciolo, nonché religione cattolica presso l’istituto tecnico industriale statale Alessandro Volta e l’Istituto Professionale Alberghiero di Aversa. Don Peppino Diana cerca di aiutare la gente nei momenti resi difficili dalla camorra, negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legata principalmente al boss Francesco Schiavone, detto Sandokan. Gli uomini del clan controllano non solo i traffici illeciti, ma si sono anche infiltrati negli enti locali e gestiscono fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare “camorra imprenditrice”.

Girava per il paese in jeans. Fumava anche il sigaro ogni tanto in pubblico. Don Peppino aveva deciso di lasciare somigliare la sua faccia sempre più a se stesso, come una garanzia di trasparenza in una terra dove i volti invece devono orientarsi in smorfie pronte a mimare ciò che si rappresenta, aiutati dai soprannomi che caricano il proprio corpo del potere che si vuole suturare alla propria epidermide.

Aveva deciso di interessarsi delle dinamiche di potere: non voleva soltanto curare le ferite, ma comprendere i meccanismi della metastasi, bloccare la cancrena, fermare l’origine di ciò che rendeva la sua terra una miniera di capitali e un tracciato di cadaveri. Aveva iniziato a realizzare un centro di accoglienza dove offrire vitto e alloggio ai primi immigrati africani. Era necessario accoglierli, evitare – come poi accadrà – che i clan potessero iniziare a farne dei perfetti soldati. Per realizzare il progetto aveva devoluto anche alcuni risparmi personali accumulati con l’insegnamento. Questo perché attendere aiuti istituzionali può essere cosa così lenta e complicata da divenire il più reale dei motivi per l’immobiltà. Con questo spirito di servizio aveva intrapreso la lotta alla camorra che infesta la sua zona. Con lo scritto e la parola si era posto a capo della comunità parrocchiale e cittadina per il loro riscatto. “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

Precise responsabilità politiche. È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani. “Le nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”». (Forania di Casal di Principe (Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo – Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata – San Cipriano d’Aversa; Santa Croce – Casapesenna; M. S.S. Assunta – Villa Literno; M.S.S. Assunta – Villa di Briano; Santuario di M.SS. di Briano)).

L’omicidio. Alle 7.25 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, Giuseppe Diana è assassinato nella sagrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre si accinge a celebrare la santa messa. Un killer lo affronta con una pistola. I cinque proiettili vanno tutti a segno: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Don Peppe Diana muore all’istante. L’omicidio, di puro stampo camorristico, fa scalpore in tutta Italia. Un messaggio di cordoglio è pronunciato da papa Giovanni Paolo II durante l’Angelus. Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana. Il Liceo Scientifico di Morcone dal 21 aprile 2010 prende il suo nome.

L’anno scorso arriva come un fulmine una notizia sconvolgente. Si apprende che la cappella dove è sepolto don Peppe Diana, nel cimitero di Casal di Principe, è stata sfregiata e che la sua tomba sia stata profanata dal furto di una piccola scultura, una mano d’oro, che don Ciotti fece porre sulla lapide in occasione del quindicesimo anniversario della morte. In queste  terre dove la giustizia degli uomini è sentita più della giustizia di Dio e dello Stato e in cui il dominio della camorra si respira in ogni angolo di strada, ci fa comprendere se e quanto fosse cambiata la realtà di quella cittadina. Una comunità amata fino al sacrificio della vita da quel giovane Sacerdote che credeva che la forza del dialogo, della persuasione e della fede potesse sempre avere la meglio sul più nefasto dei delitti.  La notizia di oggi, la lettura dei giornali e il mio personale convincimento che la prevenzione dei fenomeni mafiosi, attraverso lo sviluppo culturale ed economico, è il miglior antidoto all’incultura e alla povertà. La frase posta su quella lapide dice: ‘Parroco don Giuseppe Diana, n. 4.7.1958 m. 19.3.1994’ :“Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace”.  Il fatto è stato scoperto nella mattina del 19 aprile 2013 dal fratello del prete, Emilio Diana, allertato da un volontario del Comitato don Diana che stava accompagnando alcune scolaresche in visita alla cappella e aveva notato che il cancelletto era aperto.
Un gesto che non ha mancato di sollevare reazioni di sdegno: “Il furto nella cappella intitolata a don Peppe Diana è gravissimo, qualunque ne sia la matrice. Don Diana infatti è un simbolo di riscatto per una terra martoriata; è una figura che a distanza di 18 anni dà ancora molto fastidio”, ha commentato il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Cesare Sirignano. Anche il fratello del sacerdote, Emilio, ha condannato il gesto a nome della sua famiglia ipotizzando che ad agire siano stati “dei ladruncoli che in questo periodo di crisi hanno bisogno di soldi. Sapevano della mano d’oro e sono andati a colpo sicuro senza asportare altri oggetti, ad eccezione di un calice. Noi comunque proseguiamo la battaglia iniziata da mio fratello: il suo messaggio deve diventare patrimonio di tutti, specie dei ragazzi delle scuole che ogni giorno, specie in questo periodo, fanno la fila per vedere la cappella in cui riposa Peppe”. Insomma una speranza scomoda che tanti vogliono seppellire ottenendo l’effetto contrario: la sua memoria è inciampo per i prepotenti e fiaccola e luce per i giusti. Sempre. In eterno.  a cura di Ornella Felici

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