Oggi avviene spesso che la libertà venga considerata come il bene supremo. E poiché essa assume i volti e le istanze di uomini concreti, si finisce per pensare che libertà significhi non intromissione in ciò che l’altro crede e propone. Probabilmente si enfatizza la libertà intesa soltanto come scioglimento da un vincolo di qualsiasi natura e non come offerta di possibilità. La Verità si profila sempre all’orizzonte della libertà. Io sono libero non solo da qualcosa: sono libero, soprattutto, per qualcosa. Il rispetto della libertà altrui, pure quando si rifiuta di approdare al suo pieno compimento, è fuori discussione. Accogliere qualcosa per imposizione, diretta o indiretta, non sarebbe mai un esercizio di libertà. Il cristiano non dà il pane all’affamato perché questi si converta. Però l’amore del cristiano può condurre alla conversione, perché a tendere il pane è lo stesso Cristo per mezzo del suo discepolo. Non sempre dall’altra parte incontriamo uomini disposti ad avere una concezione tanto alta della libertà. Non è raro il caso di chi voglia imporre la sua libertà a discapito di quella altrui. Quando ciò avviene pubblicamente, al di fuori cioè dell’ambito personale, della coscienza soggettiva, il cristiano non può restare indifferente. La mia libertà deve preoccuparsi anche della libertà degli altri; dei miei figli, della mia scuola, del mio quartiere, del mio paese, dei miei fratelli di fede. Ad una proposta, che riconosco lesiva della mia libertà, devo contrapporre un’altra proposta.
Ed è qui che oggi le idee sembrano offuscarsi. Si afferma sempre più il principio secondo il quale devo rispettare sempre e comunque, non devo invadere il campo altrui, non devo sostituirmi a Dio. Ogni ingerenza nella libertà altrui è sinonimo di atteggiamento inquisitorio o di crociata. Va da sé che l’ingerenza degli altri è sempre esercizio di libertà, che noi dobbiamo rispettare e favorire. Questo è l’assoluto fraintendimento del dialogo. Non alla luce del vangelo, ma della ragione. Si genera così il sospetto che il cristiano che intervenga sia un soffocatore della libertà. Nelle sacrestie può fare quello che vuole, ma nell’ambito sociale deve rispettare alcuni limiti, tra i quali si staglia quello della laicità della cosa pubblica. Vietato pestare le aiuole, insomma. Peccato che nel frattempo altri provvedano a staccare piante e fiori da quel terreno o ad innaffiare con sostanze acide. Si può far passare un messaggio contrario alla ragione e al vangelo – le due cosa vanno di pari passo – e nessuno può manifestare il suo dissenso. Si può scendere nelle piazze, da cattolici, per la salvaguardia del creato, ma non si può fare la stessa cosa per la salvaguardia della nostra cultura o del futuro dei nostri figli. Paradosso tutto cattolico dei nostri tempi!
Chi ha paura di crociati senza armi? Chi ritiene distruttivi per la convivenza sociale uomini e donne inermi, che reclamano il diritto di parlare, o di esprimersi attraverso il silenzio eloquente della presenza? Quale fanatismo si esercita nelle forme corrette del dissenso? E’ forse fanatico un medico che esercita l’obiezione di coscienza davanti all’aborto? E’ fanatico lo stesso medico che fa sentire la sua voce per svegliare le coscienze? Chi determina dove cominci o finisca il fanatismo? Perché non ci viene detto come cominciano o finiscono l’assuefazione, la viltà, il conformismo, il compromesso? Persino un festival è diventato occasione di contrapposizione tra gli stessi cattolici. E’ certo che Cristo apra il suo cuore ad ogni uomo che viva nel peccato. E’ meno certo che Egli voglia che si diffonda il peccato. Perché esserci, allora? Perché difendere un Dio che può cavarsela da solo? Forse per arroganza o per superbia? No di certo, e nessun cattolico potrebbe cedere a sentimenti di tal genere. Ognuno deve far sua la considerazione di S. Agostino: “Perché tu, che sei giusto, credi che senza l’aiuto di Dio non puoi conservare la giustizia? Il fatto che sei giusto attribuiscilo dunque interamente alla sua bontà; il fatto che sei peccatore ascrivilo invece alla tua malvagità. Accusa te stesso ed egli ti perdonerà. In effetti ogni nostra colpa, ogni nostro delitto o peccato deriva dalla nostra negligenza; ma ogni virtù e santità è un dono proprio della divina indulgenza” (Discorso 100).
Bisogna esserci per testimoniare che ci è stato elargito un dono. Soltanto per questo! Per testimoniare che Cristo è per noi tutto, nonostante le nostre personali miserie. Anzi, proprio perché noi siamo miseri tanto quanto, e forse anche più, di coloro che vogliono contrapporre la loro libertà alla nostra. In fin dei conti vogliamo esserci o dovremmo esserci per consegnare la nostra vita, anche pubblicamente, a quel Cristo che ci fa suoi nella Chiesa, cioè attraverso una modalità salvifica che è pubblica. Che stano controsenso che contestino l’evidenza pubblica della fede tanti che si fanno difensori di un popolo, di categorie intere, di coscienze che si propongono pubblicamente. Insomma, se ci siamo, è solo perché ci ritroviamo nelle parole di S. Gregorio Nazianzeno: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Esserci non è prevaricare, offendere, mancare di rispetto, misconoscere la laicità, voler imporre. E’ gridare! Cosa? Che non vogliamo passare su questa terra come gli animali che non hanno peccati. Proprio perché abbiamo peccati, abbiamo bisogno di una misericordia che non si stanca e che ricrea. La vogliamo donare anche agli altri, ma non possiamo permettere che gli altri ce la facciano confondere con un buonismo che non è nel cuore di Dio. Se avrò vanificato con la mia libertà la misericordia di Dio, ne sarò responsabile davanti al suo giudizio. Fin che vivo, però, farò di tutto per corrispondere e per evitare che altri possano incorrere nello stesso errore. Da qualche parte ho letto che questo si chiami rendere gloria a Dio. Doveva trattarsi, però, di qualche vecchio teologo che, all’inizio del cristianesimo, vedeva il male dappertutto. di Don Antonio Ucciardo
* Don Antonio Ucciardo, nato a Siracusa nel 1964, sacerdote dal 1991, appartiene al clero di Catania. Docente di teologia dogmatica presso l’ISSR “S. Luca” di Catania e insegnante di religione nelle scuole statali, è accompagnatore provinciale delle Acli di Catania e consulente ecclesiastico della locale sezione dell’UCIIM.
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