Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» che ci porta a disprezzare gli altri. Lo ha ricordato Papa Francesco prima della preghiera mariana dell’Angelus di questa domenica. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo.
Dopo l’Angelus il Papa si è iscritto come pellegrino alla Gmg di Lisbona del prossimo anno.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo della Liturgia odierna ci presenta una parabola che ha due protagonisti, un fariseo e un pubblicano, cioè un uomo religioso e un peccatore conclamato. Entrambi salgono al tempio a pregare, ma soltanto il pubblicano si eleva veramente a Dio, perché con umiltà scende nella verità di sé stesso e si presenta così com’è, senza maschere, con le sue povertà. Potremmo dire, allora, che la parabola è compresa tra due movimenti, espressi da due verbi: salire e scendere. Il primo movimento è salire. Il testo infatti comincia dicendo: «Due uomini salirono al tempio a pregare»
Questo aspetto richiama tanti episodi della Bibbia, dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza: Abramo sale sul monte per offrire il sacrificio; Mosè sale sul Sinai per ricevere i comandamenti; Gesù sale sul monte, dove viene trasfigurato.
Salire, perciò, esprime il bisogno del cuore di staccarsi da una vita piatta per andare incontro al Signore; di elevarsi dalle pianure del nostro io per salire verso Dio; di raccogliere quanto viviamo a valle per portarlo al cospetto del Signore. Quando si prega si sale. Ma per vivere l’incontro con Lui ed essere trasformati dalla preghiera, per elevarci a Dio, c’è bisogno del secondo movimento: scendere.
Per salire verso di Lui dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore, che ci donano uno sguardo onesto sulle nostre fragilità e povertà interiore.
Nell’umiltà, infatti, diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che siamo, i limiti e le ferite, i peccati e le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca e ci rialzi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto.
Infatti, il pubblicano della parabola umilmente si ferma a distanza (cfr v. 13), (…) chiede perdono, e il Signore lo rialza. Invece il fariseo si esalta, sicuro di sé, convinto di essere a posto: stando in piedi, inizia a parlare al Signore solo di sé stesso, a lodarsi, a elencare tutte le sue buone opere religiose, e disprezza gli altri. Perché questo fa la superbia spirituale : ti porta a crederti per bene e a giudicare gli altri. E così, senza accorgerti, adori il tuo io e cancelli il tuo Dio.
Fratelli, sorelle, il fariseo e il pubblicano ci riguardano da vicino. Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» che ci porta a disprezzare gli altri. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo. Vigiliamo sul narcisismo e sull’esibizionismo, fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre la parola “io” sulle labbra: “io ho fatto questo, io ho scritto quest’altro, io l’avevo detto, io l’avevo capito”, e così via. Dove c’è troppo io, c’è poco Dio.
Chiediamo l’intercessione di Maria Santissima, l’umile serva del Signore, immagine vivente di ciò che il Signore ama compiere, rovesciando i potenti dai troni e innalzando gli umili (cfr Lc 1,52).
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