Situazione precaria in Centrafrica. Nonostante il primo accordo per il cessate-il-fuoco, dopo oltre un anno di violenze, siglato nei giorni scorsi al Forum per la riconciliazione svoltosi a Brazzaville, nella Repubblica del Congo, la situazione nel Paese sembra stagnante. A firmare l’intesa erano presenti i rappresentanti delle due principali forze belligeranti, Seleka e anti-Balaka. La tregua impegna alla cessazione delle ostilità, ma non stabilisce il disarmo e la smobilitazione dei combattenti, né una “road map” per la normalizzazione politica. Il documento, già contestato da una fazione della Seleka non presente ai colloqui, appare comunque un primo passo importante. Ma qual è ora la situazione nel Paese? Lo abbiamo chiesto a monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui e presidente della Conferenza episcopale centrafricana.
Eccellenza, come è attualmente la situazione nel Paese?
“La situazione è precaria. Bangui sta vivendo un momento di tregua e gli spari sono quasi cessati. Ci sono ancora banditi che rubano. Le forze dell’Eufor (Unione europea) hanno svolto un lavoro apprezzato dalla popolazione. La vita sta riprendendo con le attività e il traffico per strada. L’interno del Paese è in mano a gruppi armati che a volte controllano un’intera città. È quello che succede, per esempio, a Kaga Bandoro, a Mbambari, ad Alindao”.
Ci sono ancora violenze?
“Una mediazione tra i gruppi in conflitto è possibile. La piattaforma delle Confessioni religiose ha organizzato un workshop di coesione con i Seleka e gli anti-Balaka. I due gruppi hanno cominciato a comunicare molto fra loro. Vorremmo che la gente inviasse segnali forti ai loro combattenti sapendo che abbiamo a che fare con delle nebulose in cui alcuni gruppi sono autonomi. Un messaggio chiaro dei leader agevolerebbe il lavoro della comunità internazionale”.
Nei mesi scorsi si è parlato di Centrafrica come nuovo Ruanda. È un rischio ancora concreto?
“Il rischio che il Centrafrica diventi un Ruanda è reale e stiamo cercando di farne prendere coscienza ai belligeranti per evitare questa tragedia alla nostra gente. Ci sediamo seduti sulle braci e alcune persone, con interessi, giocano ad alimentare il fuoco. Se qualcuno assume delle posizioni estremiste, possiamo facilmente sprofondare nella barbarie”.
Qual è l’impegno della Chiesa in questo momento?
“La Chiesa è rimasta madre e ha accolto gli sfollati. Tre quarti dei siti di accoglienza sono luoghi di Chiesa: conventi, canoniche, parrocchie, seminari… La Chiesa ha protetto, nutrito, difeso i poveri. Attualmente sensibilizziamo i cristiani alla non-violenza, al perdono, alla tolleranza, alla riconciliazione e, soprattutto, al rispetto della vita. I membri dei movimenti giovanili vanno incontro agli altri per invitarli a deporre le armi. Noi predichiamo il disarmo delle menti e dei cuori per un nuovo Centrafrica dove poter vivere insieme nella diversità. Il nemico ha nomi precisi: orgoglio, odio, vendetta, rancore, violenza… La Chiesa invita i suoi figli alla conversione”.
Le parrocchie e le strutture religiose accolgono migliaia di persone. Avete un quadro preciso di quante sono? Qual è la situazione di questa gente?
“Tre quarti dei rifugiati – come dicevo – sono ospitati in luoghi di Chiesa. Le condizioni di vita variano da luogo a luogo. Abbiamo alcuni siti abbandonati sotto la responsabilità dei padri e delle suore: a Bangui, Saint Jean Galabadja. I rifugiati fanno fatica a procurarsi il cibo per il proprio sostentamento e mancano del necessario. La Caritas non ha i mezzi per sostenere questi gruppi a causa del suo budget limitato. Le persone hanno necessità di assistenza per ricostruire le loro case, avere un pasto quotidiano, abbigliamento, farmaci per curarsi…”.
Qual è il suo appello alla comunità internazionale?
“Chiedo ai gruppi rivali di deporre le armi e sedersi, discutere e cercare delle soluzioni insieme. La rabbia e la violenza hanno distrutto il nostro Paese, le nostre relazioni. È nostra responsabilità ricostruire nuove relazioni e le città. La nostra soluzione consiste nel dialogo e nell’accettazione degli altri con le loro differenze. La comunità internazionale deve inviare un messaggio chiaro per negare l’impunità in quanto i poveri e le vittime reclamano giustizia. La compiacenza non aiuta la situazione. Senza dubbio, i focolai di crisi si moltiplicano e non abbiamo il diritto di lasciar morire un intero popolo, il ruolo della comunità è riportare questo popolo nel concerto delle nazioni”.
Di Vincenzo Corrado per Agensir
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