E non è meno presente la preghiera d’intercessione in Mosè, la cui immagine prevalente, nella tradizione biblica, rimarrà quella del mediatore tra Dio e la comunità, del modello dell’intercessore (es. Es 17, 8-13; 32, 11-14. 30-34; Nm 1.4, 10-20; ecc.).
Tra i grandi profeti, è Geremia che negli scritti lascia intravedere, più d’ogni altro, i sentimenti che animarono il suo rapporto con Dio: le sue confessioni e preghiere rivelano delusioni, sofferenze, crisi d’un autentico uomo di fede. Egli discute con Dio, lo interpella con un vigore e una fiducia impressionanti: lamenta l’emarginazione da parte degli uomini e il silenzio da parte di Dio, che pure al momento della vocazione gli aveva garantito: «Non temere, io sarò con te!
» (1,8. 18-19).Ma è il libro di Giobbe che in questo contesto andrebbe letto per intero dove, dalla serena e, potremmo dire, ingenua fiducia degli inizi – «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo viritornerò. II Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (1.21) – si giunge, nella conclusione, alla matura e ammirata accettazione del vero volto di Dio:«Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca» (40,4); «Ho parlato senza discernimento cose troppo superiori a me, che io noli comprendo… Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (42, 3.5). Che cosa è avvenuto nel frammezzo? La parte intermedia ha rappresentato il dramma di Giobbe, che dal profondo della sua condizione umiliata e dolorosa, non ha cessato di battere alla porta di Dio invocando, supplicando, inveendo pure al fine d’ottenere una risposta dall’Onnipotente. E Dio ha preso sul serio quel lamento, si è fatto no, introducendolo alla scoperta della sua vera identità: la preghiera è stato il luogo del passaggio da quel che Giobbe «pensava» che Dio fosse, a quello che Dio è per davvero.
Il libro dei Salmi – che contiene per antonomasia la preghiera d’Israele – rispecchia i drammi e le gioie di tutto il popolo, dei singoli e della collettività, sono preghiere che nascono dalla vita, dalle sue fondamentali espressioni: lode, gioia e ringraziamento; dolore, lamento e supplica; riflessione sulle circostanze e sui problemi dell’esistenza. i salmi di supplica e di lamentazione coprono dunque almeno un terzo di tutto il Salterio. E se quelli «di lode» sono, in un certo senso, i «più nobili e perfetti» perché esprimono il puro desiderio gratuito dell’adorazione, della gioia e del ringraziamento per il semplice fatto che Dio esiste, quelli dello sconforto e dell’invocazione sono più consoni all’attuale nostra condizione di creature non ancora pienamente redente, tuttora in cammino verso il compimento, quotidianamente alle prese con le paure, le sconfitte, le malattie, calamità, la malizia e la cattiveria uomini e… la propria incoerenza infedeltà.
I Vangeli dal canto loro pullulano di episodi di singole persone e di gruppi che invocano da Gesù interventi di liberazione da malattie e da sventure. È anzi da dire che, la fede nasce da situazioni di sogno, di necessità, e quindi da domande e invocazioni.
Quelli che si rivolgono a Gesù perché afflitti da paure e minacce, neppure sanno di aver fede: è Gesù che fa emergere la loro fede nascosta all’interno di quelle invocazioni angosciose: «Perché il papà del fanciullo epilettico esprima la sua fede, è necessario che sia Gesù a nominarla per primo: «Tuffa è possibile per chi crede». Allora quegli reagisce: «Io credo, ma aiutami nella mia poca fede!» (Mc 9, 24) (J. Guillet).
Anche la fede dei dodici nasce e progredisce all’interno di situazioni di crisi e di conforto:«Maestro, non t’importa che moriamo?» – gli gridano quando brio sul mare in tempesta. E Gesù:«Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» (Mc 4, 38.39). A Pietro che, impaurito per la violenza del vento mentre cammina sulle acque insieme con Gesù, implora: – «Signore, salvami!» – è rivolto il rimprovero di «uomo di poca fede» (Mt 14, 30-01).
Del resto se i vangeli ci presentano Gesù «maestro di preghiera» quando i disepoli, contemplandolo in orazione, gli chiedono di insegnar loro a pregare (Lc 11,1), è tuttavia nell’ora della tribolazione e della prova – al Getsemani – che ce lo rivelano totalmente immerso in quel dialogo di dolore e di speranza con l’ «Abbà-Padre»: momento altamente rivelativo della sua divinità attraverso la più drammatica espressione della sua umanità, ma altresì momento culminante della sua missione salvifica. La lettera agli Ebrei, ritornando sull’episodio, vedrà in quella preghiera angosciata e fiduciosa il momento determinante del suo itinerario, perché fu allora che, «reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 9). Ora Gesù rimane per sempre in atteggiamento di intercessore:«essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb, 25). Anche lo Spirito«intercede» per noi, anzi «dentro» di noi: Rm (8,26-27).
Pare dunque di dover dire che la situazione che vive l’ uomo quando è colto dalla sofferenza e dall’angoscia, dove la preghiera è innanzitutto supplica e intercessione, richiesta di aiuto e di guarigione, costituisce un’opportunità perché egli impari a pregare davvero, entri, ossia, nel mondo di Dio. Per questo si può dire che il mondo della sofferenza e del dolore, può divenire un ambito che serva ad introdurre – o a far progredire – nel mondo della preghiera.
Fonte: www.camilliani.org
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