«Siamo contenti. È davvero un onore». È stringata Pia Luciani, nipote di Albino Luciani, passato alla storia come Giovanni Paolo I, nel commentare il decreto delle Cause dei Santi che proclama le «virtù eroiche» dello zio. Poi alla domanda su cosa abbia rappresentato questo illustre familiare per lei, prima figlia del fratello Edoardo, e per la sua famiglia, fa una pausa di silenzio e lascia riaffiorare innumerevoli ricordi. «È stato un secondo padre», dice. E quello che la gente ha visto sul soglio di Pietro per soli 33 giorni era la stessa figura che andava a trovare i dodici nipoti, ai quali non «insegnava mai in cattedra» ma riportava storie, racconti o addirittura barzellette da cui trarre una morale esortandoli sempre ad essere «eutrapelici».
Mi scusi, cosa significa?
«È quello che ci domandavamo anche noi… È una parola greca, significa mostrare l’allegria agli altri, trovare la parte gioiosa e anche giocosa in tutte le cose, perché ci diceva: “Quando le cose vanno male, non vanno mai male del tutto. C’è sempre una soluzione”. Lui ha studiato tanto il greco e a volte gli “scappavano” queste parole, anche se in genere si sforzava di essere il più semplice possibile in modo da arrivare a tutti».
Anche troppo semplice, come criticò certa stampa dell’epoca…
«Non ne parliamo. Lui curava tantissimo ogni frase, ogni parola dei suoi discorsi e dei suoi scritti. Una volta mi ero fermata a dormire da lui quando ancora era patriarca di Venezia e lo trovai la mattina prestissimo – è sempre stato uno stakanovista del lavoro – in cappella. Aveva un foglio in mano. Mi disse: “Di pregare ho pregato, ora sto cercando di finire il discorso per domani. Ho paura che non sia abbastanza semplice”. Chiesi di leggerlo e commentai: “Zio, è molto comprensibile”. “Ma tu hai una laurea in lettere, non mi posso fidare”, rispose. Lui voleva raggiungere tutti, e questo sforzo della semplicità gli è costato caro. Ricordo ancora quegli articoli in cui si diceva che la Chiesa era caduta in basso, che i cardinali avevano eletto un parroco di campagna, un contadino, semianalfabeta… Pensai: povero zio, guarda come lo trattano! Lui che ha studiato e che userebbe parole come “eutrapelia”».
Quelle critiche in vita lasciarono poi il passo al filone di letteratura noir scatenatosi subito dopo la morte improvvisa.
«È una vergogna, gente che ha speculato per guadagnare soldi. Tra giornali e libri hanno venduto di tutto. Fortunatamente ora l’ottimo libro della vicepostulatrice Stefania Falasca, dopo un lavoro compiuto per anni, getta sprazzi di luce e di verità su tutta la vicenda. Certo, ci saranno ancora gli irriducibili che non lo accetteranno. Ancora adesso circolano voci che sono tutte supposizioni di male in cui lo zio non c’entra nulla. Come certe fiction a lui dedicate dove si parla del Segretario di Stato, Jean Villot, come colui che ordì trame per la sua morte. Erano invece molto legati. Dopo l’elezione Villot aveva presentato le dimissioni e zio lo chiamò dicendo: “Eminenza, non ha piacere di lavorare con il nuovo Papa?”. “Credo che il nuovo Papa abbia diritto di scegliere i suoi collaboratori. Io poi sono anziano e vorrei finire i giorni in un’abbazia in Francia”. “Allora, eminenza, mi faccia la cortesia di rimanere finché non ho trovato qualcuno per sostituirla alla sua altezza”. Ricordo anche che, dopo la sua morte, Villot chiese di acquistare una vecchia automobile con la quale era solito girare per i Giardini vaticani con il Papa quando dovevano parlare di cose riservate. Come vede, la realtà è stata spesso capovolta».
Qual era invece il rapporto tra Luciani e suo fratello, cioè suo padre?
«Erano fratelli ma anche amici. Due caratteri diversi che si compensavano l’uno con l’altro. Papà aveva fatto la guerra, era più duro, ma entrambi si caratterizzavano per la bontà d’animo e per la generosità. Mio padre si è dedicato alla politica, non per “politicare” bensì per fare del bene alla gente. E ad incoraggiarlo era stato suo fratello Albino che gli diceva: “Abbiamo dei doveri e delle responsabilità verso la gente”».
Voi familiari siete rimasti al margine in questi anni sia per quanto riguarda una smentita delle varie congetture sulla morte che per il processo di beatificazione. Perché?
«È stata una scelta. Non volevamo mettere il naso in cose che sembravano non competerci. Non abbiamo mai fatto pressione neanche sul processo perché non era giusto farlo, anche se inizialmente il fatto di non aver adottato una “via preferenziale” come per Wojtyla ci aveva un po’ rattristato. Nel senso che questa lentezza ci sembrava una mancanza di fiducia verso lo zio. Invece è stato positivo».
In che senso?
«Gli anni di studio e approfondimento hanno costruito l’immagine corretta di Albino Luciani e non quella interpretazione di un poveretto morto sotto il peso delle responsabilità e via dicendo. Mio zio era di stampo ben diverso: era un uomo di grande cultura, di grandi speranze e grande amore alla Chiesa e per gli altri. Cercava di vivere secondo il Vangelo e nella povertà. Soprattutto in povertà. Le racconto una cosa…».
Prego…
«Quando andavo a Venezia suor Celestina, una delle collaboratrici, mi diceva: “Signorina Pia, dica allo zio di comprare dei calzini nuovi, sono stufa di rammendare buchi”. “Ma perché non glielo dice lei?”. “Ci ho già provato, e sa che mi ha risposto? Ma no suor Celestina, lei è così brava che sono sicuro che riuscirebbe a chiudere anche questi altri buchi. Su che risparmiamo un po’ di soldini e li diamo ai poveretti”. Era così. Anche da Papa. Se aveva qualcosa la dava agli altri, era buono con tutti. Anche simpatico, sa? Metteva allegria. Io ce l’ho sempre qui davanti a me».
Ora potrà pregarlo come Beato.
«Lo faccio già da tempo. Per me comunque rimane sempre lo zio Albino. Essendo la nipote più grande – ho 71 anni, sono vecchietta– ho avuto modo di conoscerlo per più tempo. Mi ripeteva sempre che ero il “capo cordata” e che se mi fossi comportata bene, tutti gli altri fratelli e sorelle mi avrebbero seguito. Anche quando capitavo a Roma mi recavo spesso a trovarlo. L’ultima volta fu dieci giorni prima della morte; mi disse: “Non ho spazio nell’agenda però ho voglia di vederti. Se non ti disturba che mentre mangio continuo a lavorare ti inviterei a pranzo”. Andai lì, lo trovai sereno, circondato da collaboratori. Mi disse che aveva tanto lavoro e che desiderava realizzare una sola cosa : delegare il più possibile le varie faccende di governo in modo da avere più spazio per dedicarsi all’apostolato, alla pastorale».
Invece, dopo nemmeno due settimane, morì…
«Immagini con che cuore accolsi quella notizia. L’unica a vederlo sul letto di morte fu mia cugina Lina che era a Roma. Io fui la prima familiare ad essere avvertita. Mi dissero che era morto con dei fogli in mano. Subito la gente iniziò a dire: chissà cosa c’era scritto su quei fogli! Erano carte di lavoro, lo sapevo, lui era un stakanovista come ho già detto: si alzava all’alba per pregare e poi ci dava dentro. Dormiva al massimo un quarto d’ora nel pomeriggio, poi la sera alle 20 dava la buonanotte ma si portava sempre qualcosa da leggere o firmare. Da Venezia, non avendo fatto in tempo, si era fatto mandare tantissimi libri e altri documenti; il suo segretario don Mario Senigaglia mi disse una volta: “Suo zio aveva già pianificato tutto il pontificato”».
E che tipo di pontificato sarebbe stato?
«Non mi piace pensare chissà cosa sarebbe successo. Certo è morto molto presto, ma evidentemente alla Provvidenza bastavano quei 33 giorni. Io ci credo, me l’ha insegnato lui. Pensi che due anni prima, dopo un viaggio in Brasile tornò con un trombo nella vena dell’occhio e raccontava ridendo che il medico gli disse che se questo trombo si fosse fermato altrove sarebbe morto. “Zio, ma perché ridi?”. “Perché la provvidenza di Dio è questa”. In effetti poteva morire già due anni prima e non è successo. Aveva una missione da compiere e, anche se in un solo mese, credo che l’abbia compiuta bene. Lo dimostra il fatto che ancora oggi c’è gente che parla di lui, che lo ricorda, che ci siano giovani che hanno sete di conoscerlo come noto su Facebook e Twitter dove mi scrivono in tantissimi».
Fonte www.lastampa.it
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