L’incontro tra Francesco e Bartolomeo a Gerusalemme quale importanza riveste?
Non si svolgerà sul Monte degli Ulivi come accadde cinquant’anni fa tra Paolo VI e Atenagora, ma nel cuore della Gerusalemme cristiana, al Santo Sepolcro, che è anche il simbolo delle divisione fra i cristiani. Come l’incontro del 1964 cambiò radicalmente il dialogo tra le due Chiese, quella d’Oriente e quella d’Occidente, l’attuale segnerà una base importante di rilancio dei rapporti tra le due Chiese sorelle in maniera nuova, rinsaldandolo e ridefinendolo negli obiettivi.
Quale esito prevede?
Il gesto in sé è un cambiamento epocale. Non è mai successo un incontro come questo al Santo Sepolcro, simbolo delle divisioni ma anche luogo della comune memoria della morte e resurrezione di Cristo. La dichiarazione che firmeranno probabilmente conterrà cose che tutti condividono, nulla di eclatante, ma il gesto in sé conta più delle parole. E parlerà al mondo cattolico come a quello ortodosso.
Che conseguenze potrebbe determinare?
La visita del Papa può aiutare la comunità internazionale a prendere maggiormente coscienza della realtà della Chiesa qui. È importante perché incoraggerà soprattutto la comunità cristiana a darsi una prospettiva, a lavorare, ad andare oltre la realtà attuale. Noi qui viviamo ancora la piattaforma di dialogo tra le Chiese stabilita nel 1753, quella dello Statu Quo. I cambiamenti qui sono lenti e hanno dinamiche proprie. Dobbiamo però andare verso una maggiore armonia, un maggior coordinamento, una maggiore collaborazione, là dove è possibile, negli ambiti pastorali, negli ambiti concreti, pratici. Il dialogo ecumenico a Gerusalemme e in Terra Santa in generale non è un problema teologico, ma pastorale. Le famiglie qui sono famiglie miste, ortodosse e cattoliche. C’è il problema del calendario, quando un padre di famiglia deve prendere le ferie per le feste di Pasqua, quale calendario segue quello della Pasqua cattolica o di quella ortodossa? Si tratta di questioni molto concrete. Ecco, gli accordi passano attraverso questi aspetti, che io chiamo condominiali, ma che sono molto importanti perché segnano il termometro reale delle relazioni fra noi.
Tra i gesti del viaggio, c’è la Messa al Cenacolo, che ha suscitato proteste da parte degli ebrei ultraortodossi.
I termini della trattativa sono stati chiari e definiti. Per arrivare alla conclusione si sono dovuti affrontare anche altri aspetti che non riguardano strettamente il Cenacolo, di carattere legale e finanziario. La celebrazione della Messa al Cenacolo ha suscitato quest’anno molto più scalpore che nel passato. In questi giorni abbiamo assistito a diverse manifestazioni di accusa. C’è da parte della comunità religiosa, della destra israeliana, ma anche degli estremisti musulmani, la paura che i cristiani acquisiscano diritti a scapito loro, cosa che non esiste. Questo però ci dice come a Gerusalemme ci sia ancora molto cammino da fare e che il dialogo interreligioso in questo caso sia ancora solo agli inizi, perché le paure e i pregiudizi sono tanti.
Cosa pensa della scelta di Francesco di venire in Terra Santa con il rabbino Abraham Skorka e l’esponente islamico Omar Abboud?
Sono suoi amici personali. Essendo questa una visita anche di carattere ecumenico e interreligioso lo hanno voluto accompagnare. Questa è la motivazione, poi si possono fare tutte le letture che si vogliono. Una mossa sicuramente intelligente che segna la libertà rispetto al protocollo. Un rabbino e un musulmano che fanno parte della delegazione pontificia, non della comunità musulmana o rabbinica. Anche nelle visite dei papi in passato c’erano rabbini di Roma che però erano qui insieme alla delegazione ebraica, non pontificia. Significa libertà rispetto al protocollo, ma anche libertà in tutti i sensi.
Un altro Francesco in Terra Santa…
Certamente sì. Un altro tipo di Francesco, ma è sempre Francesco, il significato è quello. Lo si vede, anche nelle paure che suscita, perché questo Papa è molto popolare, e poi il fatto di chiamarsi Francesco e di tornare a Gerusalemme con questa carica ideale molto profonda, suscita paure. E le paure non bisogna negarle, bisogna coglierle, saperle gestire e indirizzarle nella maniera giusta.
Quali paure?
La paura di perdere qualcosa, di perdere un diritto, di vedere che un diritto dato a un altro sia negato a me. È un po’ la storia di questo Paese. L’esistenza di Israele per i palestinesi è vista come una negazione di un proprio diritto, un diritto dato a un cristiano sembra un diritto tolto ad un ebreo o ad un musulmano, cose così. Sono paure infondate naturalmente, c’è posto per tutti e ci deve essere spazio per tutti. Però dobbiamo tener presente che questo è un Paese ferito dalla storia in tantissimi modi, dove ciascuno si è costruito la sua lettura storica e se l’è costruita contro l’altro.
La situazione della comunità cristiana in Israele è peggiorata negli ultimi tempi?
La comunità cristiana in Israele soffre molto, non forse dal punto di vista economico, ma ha problemi di identità molto evidenti. I cristiani sono cittadini israeliani ma non sono ebrei, sono arabi ma non sono musulmani, si sentono figli di nessuno e questo crea una sensazione di solitudine che poi accentua anche la lettura negativa dei gesti, che magari non hanno nulla a che fare: «Il Papa non va in Galilea, il Papa non ci ama», pensano. Non è così, ma queste sono letture giustificate dagli atteggiamenti di cui dicevo prima, la comunità cristiana fa fatica a trovare una sua collocazione all’interno dello Stato e all’interno delle comunità che compongono Israele. Di Stefania Falasca fonte Avvenire
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